15.3.17

Kavafis. La sfida neogreca (Nico Naldini)

La signora Coletti entrò nella stanza e accortasi con un'occhiata di quello che stavamo leggendo, ci strappò il volume di mano. Libro galeotto se ma uno ce n'è stato: l'edizione originale neogreca delle poesie di Constantinos Kavafis. La signora Coletti era una delle nipoti del poeta, aveva sposato un italiano e suo figlio era diventato mio amico.
Era l'estate del Cinquanta e un pezzo della famiglia Kavafis si era trasferito a Venezia perché la signora Coletti potesse frequentare ogni notte fino all'alba i saloni del Casinò. Giocatrice incallita ma anche moralista al punto di proibirci la lettura di quei versi che secondo lei ci avrebbero messi su una cattiva strada. Ma la Signora non sapeva che la cosa era già fatta e che quelle poesie ci appartenevano più di quanto lei potesse immaginare: «Giovinezza corrotta fu matrice.....».
Continuammo a leggere di nascosto e il mio amico a tradurre all'impronta perché già allora eravamo consapevoli dell'influsso, quasi un marchio indelebile che Kavafis ha da sempre esercitato su coloro che lo hanno accostato. Se non ricordo male Montale, in una dichiarazione non più confermata, ha negato che la poesia di Kavafis si ispirasse a personali esperienze omosessuali. Forse più semplicemente Montale voleva tirar fuori questa poesia da una categoria limitativa per affermare la molteplicità dei suoi strati. Quanto a coloro che hanno personalmente incontrato Kavafis ci hanno lasciato bellissime testimonianze, come una serie di riflessi della sua poesia. Basti il «Ricordo» di Ungaretti, o il racconto della visita di Nikos Kazantzakis; gli scritti di Seferis, le pagine di E. M. Forster, il saggio della Yourcenar. Tra costoro il romanziere e poeta inglese Lawrence Durrell gli ha dedicato molto di più di un ritratto. Nel romanzo Justine, uscito in Italia con una prefazione di Ellemire Zolla, è una sorta di genius loci che si manifesta nelle recite delle sue poesie fatte da Justine, la belle juive del romanzo: «Ascoltandola recitare quei versi, sfiorare con tenerezza ogni sillaba del pensoso poeta ironico, subii ancora una volta lo strano potere ubiquo della città. E con che sentimento giunse al passo dove il vecchio poeta getta da un canto la vecchia lettera d'amore che lo aveva commosso ed esclama: Mi affaccio tristemente al balcone...».
Durrell evoca gli anni e gli ambienti in cui Kavafis è vissuto ad Alessandria d'Egitto, tra gli ultimi anni dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento. Città abitata dal fantasma di Antonio morente per amore cui Kavafis ha dedicato un delle sue più memorabili poesie per realizzare una potente simbiosi di tre destini.: di Alessandria, di Antonio e dello stesso poeta. L'emergenza storica di Antonio e di altri personaggi del mondo ellenistico romano e bizantino occupano una sola parte del corpus kavafiano. Altre figure e ambienti del mondo povero ed escluso hanno premuto sulla sua vita emozionale e immaginativa. Un'inclinazione incoercibile, come risulta da questa sua rara testimonianza: «Mi piace e mi commuove la bellezza del popolo, dei giovani poveri. Servi operai, piccoli impiegati nel commercio, dipendenti di negozi. È la ricompensa, si direbbe, delle loro privazioni. Il lavoro intenso e il continuo movimento rendono sottili e simmetrici i loro corpi...».
Poeta per pochi, stampava i suoi versi su fogli volanti per una orgogliosa selezione dei suoi lettori; ma alla fine con un senso di grande amarezza: «Com'è ingiusto che io sia un tale genio e né la mia fama sia nota a tutti, né io abbia alcun riconoscimento». La sua fama è oggi fortunatamente protetta da una nuova schiera di studiosi in patria e dalle traduzioni italiane. Senza dover ricorrere alla contrapposizione crociana della traduzione bella e infedele e di quella brutta e fedele, la trasposizione di quei suoni nella nostra lingua è sempre stata una sfida. Compiuta in modo totale da Filippo Maria Pontani, e continuata con felicissimi risultati da Nelo Risi e Margherita Dàlmati in un tandem di straordinaria intesa. Un caso a sé stante sembrano costituire le traduzioni di Guido Ceronetti, rifinite come un prezioso oggetto artigianale, in cui l'artigiano di genio ha messo se stesso. Fa meraviglia che la cultura poetica italiana non si sia annesse alcune di queste traduzioni come cosa propria. Così come lo sono alcune traduzioni di Montale.
Ultimo in ordine di tempo il volume kavafiano curato da Paola Maria Minucci (Poesie d'amore e della memoria, «Grandi tascabili» Newton, pp. 294, € 6,00). La curatrice è docente alla Sapienza di letteratura neogreca, esperta comparatista di poesia neogreca e poesia italiana ed europea. La sua traduzione ci riporta ai vecchi assilli. L'impressione è che filologicamente non faccia una grinza; quindi del tutto affidabile, ma senza gli scatti linguistici di Ceronetti o la musica densa di raffinate modulazioni come nella versione Risi-Dàlmati. Opera tuttavia molto utile anche per la nota introduttiva, che offre un quadro perspicuo della fortuna di Kavafis in Italia.


“Alias - il manifesto” 13 gennaio 2007

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