31.3.17

Dickens. Il cinema senza macchina da presa (Mariuccia Ciotta)

A metà dell’Ottocento Charles Dickens già prefigurava «racconti per immagini» e, senza cinepresa, inventava «dissolvenze», campi lunghi e close-up. Poi venne D.W. Griffiith...
Foto di scena da Oliver Twist (1922) di Frank Lloyd
«... Griffith sapeva vedere tutto con nettezza e chiarezza dickensiana così come Dickens, dal canto suo, possedeva qualità cinematografiche, come capacità visiva senso compositivo dell'inquadratura, primo piano e alterazione dell'accento attraverso l'uso di obiettivi speciali». Secondo Ejzenstejn, il cinema delle origini è tessuto con le parole e il ritmo dell'autore del Circolo Pickwick, anzi, il cinema americano nasce con lui quando si svincola dalla narrazione lineare e passa al montaggio parallelo. «Come si può raccontare una storia saltando in questo modo?» si chiede il produttore di fronte a Enoch Arden, un corto del 1908 dove l'azione si sdoppia in due set lontanissimi nello spazio. «Bene - disse Griffith - forse che Dickens non scrive in questo modo?». «Sì - replicò il produttore - ma quello è Dickens, quello è un romanzo, è una cosa ben diversa». «Oh, non tanto poi. Questi sono racconti per immagini».
L'autore della Corazzata Potiemkin, il teorico del montaggio, ricorda nel suo celebre saggio Dickens, Griffith e noi - Lo sguardo indagatore, «fermo come l'acciaio» il pioniere americano (incontrato a Los Angeles nel 1930) capace di cogliere i dettagli, di catturare con un'inquadratura un intero paragrafo dello scrittore che a metà Ottocento prefigura «racconti per immagini», e che senza macchina da presa inventa «dissolvenze», campi lunghi e close-up. Quella sua meticolosa descrizione della scena considerata da alcuni stucchevole, frutto di una tecnica codificata ha il sapore futuribile del cinema, del Christmas Carol di Robert Zemeckis, per esempio, capolavoro in motion-capture 3D che trasferisce il volo notturno di Scrooge dal 1843 al 2009 e lo fa piombare nella stanza luccicante del Natale presente, un Santa Claus gigantesco e ridanciano, seduto su una montagna di leccornie, visualizzata così da Dickens: «Uno sull'altro, sul pavimento a formare una specie di trono, c'erano tacchini, oche, cacciagione, pollame, salsicce, tortine di frutta secca, budini natalizi, barili di ostriche, caldarroste, mele dalla buccia rossa arance succose, pere succulente, enormi torte di fine d'anno, tazzoni di ponce bollente che offuscavano la stanza col loro vapore profumato» (traduzione di Ottavio Fatica I racconti di fantasmi, ediz. Theoria). Ejzenstejn lo scopre «intimista» al pari di Griffith, il regista di kolossal come Nascita di una nazione e di Intolerance, e ne rintraccia il doppio stile, «provinciale» e «superdinamico». Il riconoscimento a Hollywood passa tra le righe di Dickens e approda a David Wark Griffith «per dirlo semplicemente e senza equivoci: una rivelazione... per noi giovani registi sovietici degli anni Venti». E a proposito della vena «fiabesca» dickensiana, sostiene che «le accuse d'inverosimiglianza vanno attribuite unicamente alla nostra... ignoranza di Dickens», letto in età infantile e mai più analizzato nei suoi meccanismi complessi che rimandano ai paesaggi metropolitani inglesi, dilaniati da un'industrializzazione spietata quelli di un Oliver rinchiuso in orfanotrofio e così affamato che «mi viene voglia di mangiare il ragazzo che dorme nel letto accanto». L'indignato Dickens, figlio di borghesi caduti in miseria ha vissuto l'esperienza delle workhouse, infami reclusori, luoghi di sfruttamento minorile, e li rievoca nei suoi racconti, «romanzi sociali» dove l'immaginazione è il frutto dei deliri di bambini costretti a divorare gli avanzi dei cani, ridotti ad automi, sopravvissuti per miracolo. Prodigi suscitati dalla disperazione, allucinazioni visive come quella del grillo parlante (rubato da Collodi per il suo Pinocchio) di The Cricket on the Heart, novella del 1845 trasferita sullo schermo da Griffith nel 1909. Ejzenstejn cita con ammirazione il racconto, «Si può immaginare qualcosa di più lontano dal cinema? Treni, cowboys, inseguimenti... e Il grillo del focolari». Sì, si può, seguendo l'input della novella «Incominciò la cuccuma...»,- un bricco di caffè (in originale: the kettle) che bolle sul camino - è la chiave del primo fotogramma di tutti i tempi. «Per quando strano possa sembrare, in quella cuccuma bollivano anche i film. Proprio da qui, da Dickens, dal romanzo vittoriano nascono i primi elementi dell'estetica cinematografica americana». Ma, subito dopo, il regista russo mette a confronto due elementi antitetici, il furore metropolitano del nuovo mondo di Griffith e «la Londra vittoriana pacifica e patriarcale dei romanzi di Dickens», contraddizione risolta con una deliziosa constatazione: la velocità del traffico e la vertiginosa fuga dei grattacieli «non esistono», anche New York è lenta e provinciale. Non esiste, però, neppure «la Londra vittoriana, pacifica e patriarcale». Quella di Dickens era in realtà una macchina stritola poveri, emarginati e operai, Ejzenstejn lo sa bene, ma sembra prendere le distanze da Hollywood, da un Griffith liberale e umanitario, un po' sentimentale, e da un Dickens che amava rappresentare i buoni vecchi signori e le care vecchie dame dell'Inghilterra vittoriana». Il grande cineasta appassionato di Chaplin e Disney, rivendica per il cinema sovietico l'aspirazione verso «uno stadio nuovo (socialista)», la superiorità di un cinema anti-naturalistico, dalle profondità intellettuali, contrapposto alla rappresentazione hollywoodiana del mondo. Era il 1944 quando il cineasta di Riga scrisse il saggio, la guerra non era finita, e lui vinceva il premio Stalin per Ivan il terribile parte I dopo aver subito la censura su diversi progetti non graditi, lontani dal «realismo socialista». La seconda parte del film (La congiura dei Boiardi) non fu approvata e uscì postuma (1958) mentre la terza venne sequestrata e quasi interamente distrutta. L'entusiasmo per Dickens, Griffith e noi si spense nell'amarezza di una rivoluzione negata. Quel «noi» si era eclissato. Ejzenstejn morì nel 1948 (di dolore, probabilmente) all'età di 50 anni. E si può immaginare che solo quattro anni prima il formalista russo avesse ancora «grandi speranze», che fosse affascinato dal corpo a corpo tra individuo e società messo in scena e in pagina dai due amati autori, e che ne cogliesse la magnifica relazione (politico-culturale) con il suo cinema delle grandi masse popolari. Tanti Oliver Twist sulla scalinata di Odessa... Dissolvenza.

“alias il manifesto”, 4 febbraio 2012

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