14.3.17

Leopardi a Roma. Che gaffe in salotto! (Francesca Giuliani)

L'unico aneddoto vagamente ilare sui giorni romani di Giacomo Leopardi riguarda un funerale, quello sontuosissimo di Antonio Canova, nella chiesa dei Santi Apostoli, dove un tale abate Missirini tenne un'orazione che il poeta, la stessa sera, al cospetto di altri commensali, giudicò "di nessun valore". "Gaffe" irreparabile giacché l' abate medesimo era presente a quella cena ma senza essere stato introdotto al resto della tavolata dal padrone di casa, Angelo Mai. In un battibaleno la faccenda fa il giro di "tutta Roma letterata" e Giacomo stesso, che col suo giudizio perentorio si era conquistato l'approvazione dei presenti, la racconta divertito al padre Monaldo in una delle quasi ottanta lettere scritte nei giorni in cui soggiornava nella casa degli zii Antici, nelle sale del palazzo di via Caetani, quello col cortile disegnato da Carlo Maderno. È il febbraio del 1823, primo soggiorno del poeta a Roma. Questa "bagattella" è, a guardar bene, la sola nota appena spensierata di quei mesi, del primo - e per la critica, il più importante - dei tre viaggi che fece nella capitale, per "sgabbiarsi" da Recanati.
Ma Leopardi è "diverso", lo sa e lo dice per primo lui, di se stesso: è "diverso" nel vedere cose di cui altri non s'accorgono, nell'ignorare quel che gli altri ricercano. A Roma, poco più che ventenne imbevuto di studi classici, ma già autore di alcune tra le sue poesie più conosciute, si aggira spossato fra le rovine che incantano i viaggiatori del suo tempo in quella stagione centrale del grand tour in cui Roma è soprattutto un luogo letterario. Leopardi è orripilato dai salotti che contano, disgustato in mezzo a prelati e potenti, schifato dalle manfrine delle ragazze che incontra nelle case altolocate. Ora, al poeta di Recanati, nella ricorrenza del bicentenario della nascita, Roma dedica una buona messe di manifestazioni, "Roma per Leopardi", coordinate dall' assessorato alle Politiche culturali. L'apertura è questo pomeriggio alle 16.30 nella protomoteca del Campidoglio, presenti i massimi esperti e le necessarie rappresentanze accademiche, dal rettore D' Ascenzo a scendere, con il saluto del sindaco Rutelli.
E oggi la dedica, per voce di Giulio Ferroni, non poteva non essere il tributo della scuola leopardista romana al maestro Walter Binni, scomparso il 27 novembre scorso, a cui seguiranno le parole del filosofo Remo Bodei sul tema dei Pensieri immensi. È soltanto l'esordio, a cui seguono concerti e lezioni leopardiane, mostre e conferenze, fino a primavera. Occasione imperdibile dunque per cedere alle "rimembranze" di cui davvero nessuno meglio di Leopardi stesso è fonte: la ricorrenza offre spunto per ripercorrere le storie romane del poeta, studiate approfonditamente da generazioni di critici, l'ultima volta nel convegno "Leopardi e Roma", organizzato dalla Sapienza nell'88.
Da qualche settimana, al lavoro su questo specifico aspetto documentario, è un gruppo di giovani ricercatori, coordinati da Luigi Trenti, che sta preparando una mostra per le sale - adattissime - del Museo Napoleonico, ad aprile. Lettere in mostra, e che lettere: Leopardi arriva a Roma e subito, dal 23 novembre 1822, comincia a scrivere. Scrive, scrive, scrive al padre Monaldo, al fratello Carlo, alla madre Adelaide di cui soltanto qui, in tutta la sua vita, ha nostalgia. Da Recanati, Giacomo porta la propria esistenza, in una stagione in cui non ha neanche la poesia a dargli quella "felicità provata nel momento del comporre". Arriva e si sistema cercando un modo per liberarsi del famoso "natio borgo selvaggio": è tutt'altro tormento l'opposto stato d'animo dai letterati stranieri in pellegrinaggio in città, tra cui Goethe, Shelley, Chateaubriand, tutti sedotti dall'estetica delle rovine, sospiranti ai chiari di luna, di fronte al Colosseo, alla tomba di Cecilia Metella, ai Caravaggio e ai Michelangelo. Ma Leopardi è diverso: il suo è il rifiuto della interpretazione letteraria del mito classico della scena, della storia di cui Roma è teatro e barocchissima scenografia. Scrive: "Andato a Roma, la necessità di convivere con gli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente". E la vertigine più dolorosa la prova immerso nello spazio urbano: dopo aver visto piazza san Pietro, definisce la città "spazio gettato tra gli uomini", un luogo dove le distanze abissali lo infiacchiscono.
Scrive: "Delle grandi cose ch'io vedo non provo il menomo piacere perché conosco che sono meravigliose ma non lo sento, e t'accerto che la moltitudine e la grandezza loro m'è venuta a noia dopo il primo giorno". Come se non bastasse, anche la vita dagli Antici ("persone vacue, ciarliere") gli è insopportabile: trova i suoi parenti frivoli, confusi, chiassosi e giudica la loro casa mal riscaldata tanto da procurargli i geloni che lo terranno a letto per duecento ore di sofferenza contate e, naturalmente, messe per scritto. Anche lo zio protesta perché Giacomo non sa tener conversazione, è noioso, maldisposto. Eppure - è documentato - la società letteraria romana non mancherà di apprezzarlo. Tra le sue poche consolazioni, la festa del Carnevale dopo il Capodanno romano, le serate a teatro, in particolare al vicino teatro Argentina di cui racconta al fratello e a Monaldo, "una cosa stupenda". E c'è una visita memorabile, quella al sepolcro del Tasso, vicina ai giorni in cui cataloga i codici greci della Biblioteca Barberina. A Carlo Leopardi, scrive: "Questo è il primo e l' unico piacere provato in Roma", apprezza "l' umiltà di quella sepoltura" confrontata ai "superbissimi mausolei" che sono dovunque e che fanno dimenticare le persone a cui sono intitolati. Unica, momentanea consolazione in una città che deprime la fantasia, la libertà, la capacità di rivelare sé stessi. Scrive, nel 1831: "Io considero la mia dimora in Roma un esilio. Non miro che al ritorno".


“la Repubblica”, 19 gennaio 1998  

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