26.3.17

Toti Scialoja, la pittura come poesia (Fabrizio D' Amico)

ROMA - Ho letto un'altra volta la pagina che Giovanni Raboni premise, due anni or sono, alla raccolta delle Poesie. 1961-1998 di Toti Scialoja. Ora, alla malinconia per Scialoja, che è morto nel '98, e per la compagna Gabriella Drudi, s'è aggiunta quella per Raboni, che è mancato da pochi mesi (è stato, tra l'altro, il primo, prezioso presidente della Fondazione Scialoja). Ricordarli - tutti assieme - è il senso primo di una piccola mostra preziosa, ordinata oggi all'Accademia di San Luca, con gran garbo, da Barbara Drudi, destinata all'opera su carta di Scialoja, e alla sua poesia (manoscritti, libri, letture).
Rileggo da Raboni: «in Scarse serpi Scialoja fa delle parole - o, se si preferisce, con le parole - esattamente le stesse cose che ha fatto durante la sua precedente incarnazione, quando era o fingeva di essere un poeta "per bambini"; le scompone, le accoppia, le ribalta, le fa lievitare, le fa scomparire e riapparire, insomma le mette in scena e in movimento in tutti i modi diabolicamente e angelicamente possibili». Ricordate?: «Una zanzara di Zanzibàr/ andava a zonzo, entrò in un bar,/ "Zuzzurellona!" le disse un tal/ "mastica zenzero se hai mal di mar"». Poi, proprio da Scarse serpi, senza disperdere quel che aveva meditato a partire dal nonsense di Edward Lear, «comincia per Scialoja un lungo viaggio nella mestizia, nello sgomento, nell'amarezza, alla cattura di sempre più mature sofferenze e inquietudini». Viene così, ad esempio: «Di tanto in tanto a Taranto/ arde un cielo amaranto/ nasce dal mare un rantolo/ interrotto da un tonfo./ è una tortura a Taranto/ la ronda del tramonto/ anima mia all' istante/ moribonda tarantola».
Accanto alla poesia (prima, dopo?: diciamo finalmente: assieme, senza fare, come troppo spesso s'è fatto, con ottusità o malevolenza, una gerarchia), la pittura. E stato così lungo il percorso di Scialoja, così intenso, così ininterrotto, da essere difficilmente documentabile, tutto intero e senza lacune, in una singola occasione espositiva.
Oggi, Barbara Drudi ha inteso sottolineare in particolar modo due tempi di quel percorso. Il primo, giusto alla metà degli anni Cinquanta, quando Scialoja, in una sintassi cromatica ristretta al rosso e al nero (in ciò avvertendosi la suggestione di Burri, suo compagno di strada e amico fraterno), ritaglia porzioni di spazio di memoria neo-concreta su una carta macchiata da impronte litografiche (quasi una premonizione dell' impronta che verrà, costituendo il modo maggiore di Scialoja, a partire dal '57). Il secondo tempo, relativo agli anni Sessanta, documenta il progressivo restringersi dell' impronta nel campo della pagina pittorica - ritmata in cadenze allusive dello scorrere del tempo - ritagliato in porzioni quasi geometrizzanti: ed è questo il momento in cui, quasi silente la pittura che tornerà ad esplodere negli anni Ottanta, si fa egemone proprio il lavoro condotto sulla carta.


“la Repubblica”, 20 dicembre 2004

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