26.3.17

Proverbi africani. Forme di tradizione letteraria in una esperienza antica (Chris Abani)

Chris Abani (Afikpo, 27 dicembre 1966), nigeriano di madre inglese, romanziere, poeta, studioso di letterature, lasciò nel 1991 la Nigeria, dopo che un suo romanzo e un'opera teatrale, giudicati sovversivi, gli erano costati il carcere e la tortura. Vive oggi a Los Angeles. Il testo che segue è ripreso da una bella serie di servizi dal titolo Africa, Afriche, dedicata nel 2007 al continente nero dal quotidiano comunista “il manifesto”. (S.L.L.)
Chris Abani (foto di David Shankbone)
Scavare all'interno di una tradizione letteraria, quando - come nel caso di quella africana - questa sia per lo più orale e quindi priva di punti di riferimento, equivale a disegnare una carta geografica dell'oscurità. E tuttavia proprio questo limite costituisce un punto di forza: se infatti come risorsa per questa mappa usiamo la teoria di Vico sul linguaggio, assume un senso preciso individuare all'interno del linguaggio stesso i materiali - penso ai proverbi, agli indovinelli, alle formule magiche, alle filastrocche - che in certo senso rappresentano la base della tradizione letteraria.
Esempio perfetto di «archeologia» linguistica è il proverbio, la prima forma letteraria a emergere sul continente africano. L'importanza dei proverbi è evidente: per molti versi si possono paragonare alla forma poetica dello haiku, non soltanto per il loro linguaggio immaginoso e la sintesi espressiva, e più ancora per la loro capacità di evocare una realtà più ampia, a volte ineffabile.
Il critico nigeriano Isidore Okpewho ha mostrato come i proverbi possano rappresentare una forma condensata di racconto popolare o di parabola, anche se non è chiaro se il proverbio sia un distillato del racconto popolare o se formi la pietra angolare della sua costruzione - l'antico dilemma dell'uovo e della gallina. L'esempio di cui Okpewho si serve è il proverbio: «chi trasporta un peso dovrebbe sapere di che peso si tratta», che secondo le sue fonti deriva dal seguente racconto. Una volta, un ladro che aveva rubato dei beni e li aveva infilati in un sacco, chiese a un passante di aiutarlo a trasportare il pesante fardello per un tratto di strada. I due arrivarono a un cancello, presidiato da un guardiano che li fermò chiedendo chi fosse il proprietario di ciò che trasportavano. Per tutta risposta il ladro indicò l'uomo che lo aveva aiutato, e quando quest'ultimo protestò a gran voce di non sapere di che natura fossero quegli oggetti, il guardiano ribatté: «Anche da un bambino che trasporta un fagotto ci si aspetta che sappia di che cosa si tratta». E così l'aiutante venne ritenuto colpevole di trasportare beni rubati.
In realtà, però, un proverbio può benissimo prescindere dai dettagli del racconto popolare cui è legato, ma punta alla morale che esso racchiude. E in effetti in Africa, il proverbio è usato sostanzialmente con tre funzioni: appunto come forma di discorso codificato per impartire una morale, come motto di spirito e come dimostrazione di abilità verbali. Proprio in riferimento a queste possibilità, il proverbio diviene un prodotto all'interno del quale si possono rintracciare, come suggeriva Vico, gran parte delle informazioni riguardanti la particolare cultura entro cui il proverbio si è formato, nonché la sua collocazione storica.
I proverbi contengono spesso allusioni e usano un linguaggio pittoresco, come in questi due esempi che arrivano dal Sudafrica: «la morte del cuore non si può condividere», e «quando a parlare è il capo, il popolo fa tacere le orecchie». Un commento culturale sulla percezione della «natura reale» di persone o cose emerge in questo detto: «I bianchi non hanno parenti. Il loro unico parente è il denaro». E sebbene in questa forma siano radicate possibilità semantiche e persino semiotiche più profonde, in superficie esse appaiono come pensieri lineari: proprio in questa tensione traspare la fertile oscurità della nostra tradizione letteraria.
Proverbi figurativi fanno spesso uso di similitudini e metafore, complesse o semplici a seconda dei casi, il cui referente culturale può rimandare tanto a una «verità generale» quanto a una «verità specifica». Una similitudine che può fungere da esempio si ritrova in un proverbio Hausa che dice: «Un capo è come un mucchio di spazzatura, al quale tutti si avvicinano per buttare i propri rifiuti». Per rifiuti qui, naturalmente, si intendono lamentele, e questa semplice costruzione rende il proverbio immediatamente accessibile anche a chi provenga da una cultura diversa. Nel caso della metafora, Chinua Achebe, nel Crollo, usa con grande efficacia un proverbio, «Il rospo non corre mai di giorno senza un buon motivo». Qui però il referente specifico mette in ombra il referente generale, così che, a meno che uno non sappia che i rospi sono creature notturne, che appaiono di giorno solo quando sfuggono a un predatore come un serpente, si perde la verità generale per cui un comportamento insolito indica qualcosa di sospetto.
Tuttavia, il proverbio inteso come unità a sé può funzionare dinamicamente con un ordine di significato collocato all'interno di specifiche culture. Dal momento che il proverbio è una forma molto diffusa nell'Africa sub-sahariana, si può quindi sostenere che il rapporto tra queste culture offre indicatori comuni per decifrarle. I proverbi intervengono a veicolare messaggi specifici attraverso una forma lirica, ma la scelta dei costrutti (così come il modo in cui i poeti usano il verso, e come avviene nel blues) è più limitata di quanto spesso immaginiamo. Prendiamo ad esempio il proverbio Sotho che serve a mettere in ridicolo l'egocentrismo: «Io e il mio rinoceronte». Da nigeriano sono in grado di dipanare la verità generale insita in questo proverbio pur senza conoscerne gli elementi specifici, ma decodificando i vari modi in cui il pronome personale «Io» può entrare in relazione con il termine «rinoceronte». E lo stesso avviene quando gli Igbo dicono: «La nostra mente è come un sacco, ciascuno trasporta il proprio», per indicare il fatto che tutti abbiamo modi diversi di percepire le cose che comprendiamo.
Per concludere, un'ultima riflessione. Il proverbio, si sa, è costruito come una forma orale che trova nella performance la sua vera dimensione. Anzi, nel romanzo del nigeriano Elechi Amadi The Concubine, la schermaglia verbale giocata sui proverbi viene paragonata a un incontro di lotta libera. Il movimento della performance evoca così una forma letteraria instabile che si può attuare solo come «evento». Ed è la fluidità di significato dettata dal contesto a determinare le possibilità liriche di questa forma, tanto che si si potrebbe guardare ai proverbi africani (e non solo) come a movimenti che accompagnano l'esistenza in una sorta di costante tensione: un concetto, quello della materia che cambia di continuo forma cosicché nulla mai è statico o uguale a se stesso, che unisce la tradizione orale africana a Lucrezio. (traduzione di Maria Antonietta Saracino)


“il manifesto”, 26 luglio 2007

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