Goethe nel suo studio con il suo segretario |
Dunque, secondo il
referendum promosso da vari giornali e riviste europei (in Italia, da
“Tuttolibri”, supplemento artistico e letterario de “La
Stampa”), e già spiritosamente commentato da Luigi Malerba e Paolo
Mauri su “la Repubblica” (5 giugno 1984), i quattro scrittori più
famosi d' Europa, con vistoso distacco rispetto a tutti gli altri,
sarebbero: Shakespeare, Goethe, Cervantes e Dante. Tralasciamo tutte
le osservazioni che si potrebbero fare, e in parte si sono già
fatte, sui limiti di tale gioco (non basta dichiarare a più riprese
che di un gioco si tratta, per nobilitarne i tratti intellettuali), e
ci limitiamo a segnalare questa curiosa coincidenza. Su “la
Repubblica” dell'8 giugno 1984, Lucio Villari, nelle vesti
d'improvvisato ma sapiente dantologo, c'informava che le letture
preferite di Karl Marx, i suoi veri e propri livres de chevet,
erano: Shakespeare, Goethe, Cervantes e Dante; e, quasi a togliere
ogni ombra di dubbio sulla fondatezza di questa informazione,
riportava una testimonianza di Wilhelm Liebknecht niente di meno che
del 1896, secondo cui egli (Marx) "li aveva eletti a sommi
maestri e li leggeva quasi ogni giorno".
Ohibò, qui c'è un
indizio da approfondire. Si sono messi insieme dodicimila voti da
ogni angolo d'Europa e si è spesa tanta fatica calcolatoria e
combinatoria, per arrivare alla sconvolgente conclusione che i
lettori medi europei dell'ultimo quarto del secolo ventesimo
sembrerebbero rivelare le stesse preferenze letterarie di un genio
della politica e dell'economia della metà del secolo scorso? Anche
su questo si potrebbe fare facilmente dello spirito: è Karl Marx
l'inconscio precursore del gusto letterario kitsch dell'età dei
media? oppure sono i lettori dell'età dei media inconsciamente
marxisti?
Nonostante l'aria idiota,
che sempre spira intorno a referendum, sondaggi e inchieste di questo
tipo, quei quattro nomi "balzati" là sulla vetta della
classifica suggeriscono qualche spunto di riflessione in merito ad
una questione, che la scienza letteraria ormai prudentemente
accantona (dopo essersene troppe volte scottate le dita e
insanguinato il naso) e che la spregiudicatezza referendaria della
cultura di massa invece ci ributta sfrontatamente addosso: quella del
valore dell'opera o, se si preferisce, della natura e statura dello
scrittore. Il referendum, infatti, è la versione rozza e al tempo
stesso l'ultima applicazione possibile di un bisogno profondo,
proprio di tutta la nostra tradizione culturale, di stabilire tra i
fatti non solo delle relazioni, ma anche delle gerarchie: un
procedimento non dissimile è usato ancora in una moltitudine di
testi critici e manualistici, da cui riemerge continuamente,
implicita o esplicita, la distinzione tra scrittori massimi,
maggiori, minimi, e così via. Poiché sempre più di rado s'
incontra il critico, lo specialista, che abbia il coraggio di dire:
"questo scrittore è un grande; quest' altro è da buttar via",
c' è chi ha avuto l' idea di risolvere l'intricata questione nel
modo in cui nelle società democratiche si risolvono (o dovrebbero
risolversi) tutte le questioni, e cioè con il voto. Ma il voto
sembra oggi sempre meno in grado di risolvere le questioni politiche,
figuriamoci quelle letterarie.
Il fatto è che le
gerarchie non possono in sè esaurire il problema del valore: se mai,
possono darne una rappresentazione approssimativa e limitata nel
tempo e nello spazio. Non è difficile infatti accorgersi che quei
quattro scrittori stanno sulla cima fondamentalmente perché la
cultura cui si ispirano sia Marx, sia i lettori mediamente colti
dell'inchiesta, è quella del realismo romantico o, forse meglio, del
romanticismo realista: una cultura - e questo potrebbe essere già un
dato interessante della riflessione - dentro cui sorprendentemente
ancora tutti siamo, se è vero, com'è vero, che dall'area culturale
realistico-romantica a quella multimediale il salto è molto più
breve che dall'area classica o dalle culture primitive o da quelle
orientali. Prima del realismo romantico Dante era stato per secoli
uno scrittore guardato con un diffidente rispetto, che di sicuro non
gli avrebbe aperto la strada ad un buon piazzamento, e Shakespeare,
salvo che in area inglese, passava, com'è noto, per "un barbaro
non privo d' ingegno". Voglio dire che la parte seria di un
ragionamento sulla gerarchizzazione dei valori letterari, ove non se
ne vogliano presentare le conclusioni come assolute e definitive,
consiste nel far riferimento ad un complesso di fattori culturali
profondi, ad un insieme di convincimenti radicati nell'essere, ad una
vera e propria antropologia dei fenomeni letterari, senza i quali
anche soltanto provarsi a giudicare sarebbe impossibile.
Non si tratta, beninteso,
di descrivere una specie di neutra trasmissione di comportamenti e di
valori dalla sfera del sociale a quella culturale e poi di qui a
quella letteraria: il campo, al contrario, è altamente conflittuale,
aperto di volta in volta a non deterministiche soluzioni. Prova ne
sia, per tornare alle classifiche da cui siamo partiti, che lo stesso
orizzonte di gusto e di valori, che spinge così in alto quei quattro
autori, respinge necessariamente in secondo piano l'arte di
Boccaccio, Petrarca, Ariosto, Milton e fa sparire dalla scena fin
quasi dalla prima selezione la poesia di Rimbaud, Mallarmè, Benn,
Eliot, Montale, Walser e Roth...
Il guaio di queste
classifiche, comunque formulate, è che, quanto più si sale, tanto
più l'aria si rarefà e il rapporto con l'oggetto tende a diventare
astratto, rituale: accanto a quelle quattro superstars si potrebbero
mettere Omero e la Bibbia, Virgilio e Tolstoj; e il quadro sarebbe
pressoché completo. Per un eccesso di valorizzazione, più nessun
valore, ma la sacralizzazione, il mito: questi semidei si potrebbero
anche non più leggere (è, del resto, il caso di Dante, è il caso
di tanta parte di Goethe), il risultato del referendum resterebbe lo
stesso. Il massimo dell'eccellenza coincide con l'ovvietà: Marx e il
bancario milanese della fine del ventesimo secolo leggono e
apprezzano le medesime opere, ma ciò non significa più nulla.
Temo non sia facile
uscire da questa impasse, ormai veneranda e ampiamente sclerotizzata.
La storia si era illusa di render più facile tutto: ripartendo dalle
radici storiche dei fenomeni letterari, infatti, si pensava di
mettersi in grado di cogliere in ognuno di essi l'elemento di
autenticità, di originalità, che lo caratterizzava. Ma bisogna aver
l'onestà di riconoscere che accanto a questo ha continuato a
funzionare insopprimibile un altro meccanismo logico del tipo: non mi
basta sapere come e perché, voglio sapere cosa mi rende un testo più
amabile, più apprezzabile di mille altri. Questo interrogativo è
sempre stato molto difficile, ma oggi è diventato quasi impossibile:
io sono uno di quelli che pensano che una scienza della letteratura
sia legittimissima e utilissima, ma mi rendo conto al tempo stesso
che il lettore è un uomo sempre più solo in un universo
comunicativo sempre più affollato.
Forse, invece di tentare
sterili campagne per rovesciare questa tendenza, bisogna rassegnarsi
a considerarla fatale e abituarsi a convivere con essa. Il valore
c'è, e come; ma prima che un' estetica nuova riesca a sistemarlo in
un nuovo quadro, non dimenticherei che esiste un livello profondo,
insondabile e incomunicabile, della lettura, dentro cui un canto di
Ariosto può darci maggiore soddisfazione di una tragedia
shakespeariana e Campana può anche sembrarci maggior poeta di
Montale. Mi accorgo che contrapporre ai voti di un pubblico
referendum o alle consumazioni di massa del letterario l'originario
spunto creativo proprio di ogni singolo lettore, corre il rischio di
assumere una tonalità schiettamente reazionaria.
Potrei difendermi
dichiarando che non ignoro i processi osmotici che si verificano tra
i diversi livelli del letterario, e, quindi, anche tra quelli di una
privatissima e oscurissima lettura e quelli di un universo
multimediale (processi, di cui altre volte ho cercato di parlare su
queste pagine); e precisando che anche il mondo oscuro, privato e
profondo del singolo lettore, è in realtà una sintesi di molti
fattori diversi, tra cui rientra anche il rapporto con una più
complessiva antropologia (quella, ad esempio, per cui, per la grande
maggioranza dei lettori comuni, Shakespeare, Goethe, Cervantes e
Dante, sono effettivamente, come per un qualsiasi Marx, "i sommi
scrittori e maestri"). Preferisco però restare, in questo
momento, alla enunciazione drastica della mia affermazione: il
riconoscimento e la persistenza del valore sono fondati innanzi tutto
su di un "a tu per tu" con il testo, che si fa forte delle
molteplici componenti di un' intera, singola e irripetibile
esperienza esistenziale.
Il valore è ciò che
nessuno può togliere all' individuo lettore che lo ha individuato e
apprezzato. Ogni augurabile sistematizzazione futura del problema non
può non tener fermo questo punto: se lo sopprime, meglio farne a
meno.
la Repubblica, 21 giugno 1984
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