Ritrovo tra i miei
ritagli questa lettera al direttore di "Rinascita" (il prestigioso settimanale di politica e cultura fondato da Togliatti, al tempo diretto da Alfredo Reichlin) che dimostra peraltro la serietà
con cui nel Pci si guardava ai problemi della cultura. Del compagno
ragusano autore della lettera non so nulla, mi pare tuttavia che
certe sue considerazioni sulla comunicazione poetica conservino una
grande attualità dopo quarant'anni e più. Peccato che (quasi) non ci sia più il “movimento operaio organizzato”.
(S.L.L.)
Gennaio 2017, Perugia, Serata di poesia alla Società Operaia di Mutuo Soccorso (foto Marco Giugliarelli) |
Caro direttore,
sarebbe stato più
interessante che gli appunti di Sereni (vedi Rinascita, n. 37)
avessero trovato, effettivamente, destinatario il pubblico del
festival dell'Unità a Milano. Più interessante perché, io credo,
in un ambito più vario e quindi un po' diverso da quello dei lettori
di Rinascita, gli interventi avrebbero dato un'idea più esatta di
quanto la gente gradisca i rapporti, e che tipo di rapporti, con la
poesia, e con quale poesia. E chi ne avrebbe tratto insegnamento, a
modifica — o, chi sa, anche a conferma, ma io spero a modifica! —
di certe sue convinzioni sarebbe stato per primo lo stesso Sereni. Il
quale, per esempio, non è convinto che «l'unisono di vibrazione di
un pubblico di spettatori all'uscita di certi film o l'afflusso di
folla giovanile... per un concerto di jazz...» possano riprodursi ad
un recital di poesie o ad uno spettacolo «montato» con i testi di
un libro di poesia.
Eppure, lo stesso giorno
che leggevo su Rinascita lo scritto di Sereni «Poesia: per chi?»,
avevo appena letto sul quotidiano della sera di Palermo “L'Ora”
la seguente cronaca: «Successo del Poeta in piazza. Vivo
-successo sta riscuotendo in questi giorni in molti centri siciliani
come Capizzi, Caronia, Paceco, Marineo, lo spettacolo presentato dal
gruppo Il poeta in piazza che ha preso il nome dall'ultimo
libro di Ignazio Buttitta e da cui trae alcuni brani per lo
spettacolo. Il gruppo riscuote il successo e l'attenzione locale
soprattutto per i motivi umani, sociali e culturali trattati con
intensa partecipazione emotiva e con aggressività musicale, ecc. ».
Ma, ritornando a Sereni e
all'augurabile scioglimento del «partito dei poeti, con le sue
gerarchie, liturgie, ecc. » il problema. anche se complesso, non è
di aspettare, come dice Ferretti «una radicale trasformazione della
società capitalistica», o, come dice Sereni, «la sostituzione dei
valori oggi in crisi... mediante altri valori». Non si risolve cioè
la propria insoddisfazione, proiettandola semplicemente nel futuro.
Il problema è, prima di tutto, convincersi della necessità di
sostituire all'uditorio invisibile, alla folla che egli «suppone»
esistente e presente, un pubblico visibile e ben reale. Comunicare o
«accomunare», in definitiva «operare in versi», restano parole
senza senso se non si risolve o, almeno, se non si tenta di risolvere
questo problema primario: quello di avere un pubblico reale, sempre
più vasto e composito.
Si tratta, allora, di
vedere se questo non sia prima di tutto un problema «politico »,
cioè di organizzazione. Come i festival dell'Unità sono frutto di
una organizzazione, così le recite di un poeta (o di chi per lui)
possono essere frutto di una organizzazione che abbia però carattere
di periodicità e quindi di continuità. E non è detto che la poesia
debba sempre andare nuda e cruda all'ascoltatore. Ci si può anche
servire di strumenti spettacolari, fra cui ad esempio il teatro.
Ma non basta. C'è anche,
strettamente legato al problema del pubblico, un altro problema
importante: il problema del linguaggio. Se si sa, e ci si contenta,
di dover affrontare solo un pubblico di letterati, studiosi e...
«amatori», tale problema si riduce a un mero gioco dialettico tra
le proprie ascendenze letterarie ed esigenze di volta in volta
diverse. Ma se ci si comincia a preoccupare della «zona
d'irradiazione della poesia», della competitività della narrativa e
dei «vari prodotti della civiltà dell'immagine», e insomma della
poesia ridotta quasi al silenzio, allora diventa d'obbligo anche un
«problema del linguaggio», cioè di come si può parlare alla
gente, oggi, e farsi capire.
Ossia diventa
fondamentale per il poeta l'esigenza della chiarezza, che non è
necessariamente sinonimo di facilità o semplicismo, ma vuol dire
innanzitutto andare al fondo, al centro delle cose, a ciò che si
dice «verità» o «bellezza». Diceva Nazim Hikmet che «la forma
della poesia è data dalla necessità della vita» e che egli aveva
cambiato forma in diverse occasioni, adattandosi alle necessità di
situazioni diverse o di interlocutori diversi. Brecht, dal canto suo.
si crea volutamente delle forme didascaliche affinché la sua ironia
e la sua chiarezza raggiungano un pubblico reale, ma fa di più: dà
alla propria poesia le dimensioni dello spettacolo, allargando così
la cerchia dei propri interlocutori.
Che cosa si è fatto
invece in Italia, da parte dei letterati cosiddetti « tradizionali
»? Si è lasciato che un manipolo di «terroristi» (mi si passi
l'appellativo, almeno in considerazione dei risultati che hanno
ottenuto) si ponessero questi problemi solo in rapporto e nell'ambito
di una nuova «società letteraria», certo più scaltrita della
precedente e predisposta, in forme apparentemente avanguardistiche.
ad inserirsi in maniera nuova nelle strutture del neocapitalismo e
della sua industria culturale. Il danno che l'exploit del «gruppo
'63» ha prodotto in Italia è stato, secondo me, incalcolabile.
Nemmeno paragonabile alla iniziale confusione prodotta negli anni '50
in Italia dall'astrattismo. Il quale, diffondendosi quasi per
reazione a certo provincialismo o piattezza «neorealistica»,
divenne, al di qua della legittima esperienza neoavanguardistica, a
tal punto una moda da cancellare i confini tra cultura e in poesia
sia successo così. E lo avverte anche Sereni quando dice che «usava
una decina di anni fa formare in poesia ossia esprimere o inventare,
mentre oggi si opta più per la comunicazione che per l'espressione»
(mi si perdoni il « rimontaggio », ma credo sia pur quello il senso
delle sue parole!). Nella sostanza, che differenza c'è tra lo
spontaneo «informe» di migliaia di giovani poeti italiani di oggi e
la «razionale», raffinata «forma dell'informe» dei «novissimi»?
Prima ancora, dunque, di
affrontare un problema di orgaganizzazione del pubblico, bisogna che
nel mondo della cultura si affermi, con estrema chiarezza e senza
presunzione, il concetto che «il poeta vero» non è uno stato di
eccezionalità aristocratica, ma l'onesta condizione lavorativa di
chi «forma» in poesia od opera specificamente per «accomunare» ad
un senso, ad un discorso o ad una gioia un pubblico reale. Dopo di
che, si potrà chiedere anche, e con pieno diritto, al movimento
operaio organizzato di fare posto adeguato, nella nuova prospettiva
della sua politica culturale, al prezioso lavoro del poeta.
Umberto Migliorisi
Ragusa
“Rinascita”
n.45, 14 novembre 1975
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