Marcuse durante una sua lezione a Vincennes negli anni Sessanta |
Di fronte alla catastrofe
in arrivo, nel 1940 Max Horkheimer disse che il compito della Scuola
di Francoforte – di cui era un esponente di spicco – era di
affidare il pensiero al futuro: un messaggio nella bottiglia. A
distanza di decenni, il messaggio resta intatto e interessante; cosa
fare della bottiglia è tutt’altro discorso. Durante il
Sessantotto, alcuni la riempirono di esplosivo e decisero di
attaccare frontalmente il sistema. Nello stesso periodo, l’altro
grande nome della Scuola, Theodor Adorno, fu molto contestato dai
suoi studenti. Su una lavagna scrissero: «Se Adorno venisse lasciato
in pace, il capitalismo non morirà mai». Lui si lamentò: «Ho
creato un modello teorico di pensiero. Come potevo sospettare che la
gente lo implementasse con delle molotov?». Fino all’ultimo
ritenne che pensare fosse l’unico atto di resistenza radicale.
Proteste e barricate non servivano a nulla contro «chi amministra la
bomba».
Ma gli studenti avevano
ragione almeno su un punto. La teoria critica inaugurata dai marxisti
francofortesi era opposta al capitalismo e al conformismo: ma non
prendendo parte attiva contro il mondo che disprezzava, non finiva
per cedere all’ipocrisia? Secondo György Lukács, era proprio
così. Per lui i membri della Scuola di Francoforte avevano una
stanza nel metaforico Grand Hotel Abyss: potevano dedicarsi a
commentare l’abisso sotto di loro – la crisi della modernità, i
vecchi e nuovi fascismi – comodamente seduti in poltrona, «fra
pasti eccellenti e intrattenimenti artistici».
E proprio Grand Hotel
Abyss è il titolo del bel saggio di Stuart Jeffries sulla storia
del movimento, pubblicato di recente da Verso Books. In effetti, il
sarcasmo di Lukács coglie nel segno. Tutti coloro che gravitarono
attorno all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte (e poi
di New York), vissero in una contraddizione evidente. Rovesciando
l’undicesima tesi su Feuerbach di Marx, si limitarono a
interpretare diversamente il mondo invece di trasformarlo; a una fede
socialista accompagnarono uno stile di vita piuttosto borghese.
Jeffries mostra come le
origini dell’incoerenza affondino in una storia di padri e figli.
Tutti i membri principali della Scuola, a parte alcune eccezioni,
provenivano da ricche famiglie ebraiche contro il cui stile di vita
si erano ribellati, salvo trarne tutto ciò che gli serviva per
vivere. Il grande Walter Benjamin, nume tutelare del movimento,
pretese sempre che i genitori gli versassero una diaria; e a
quarant’anni non sapeva prepararsi il caffè da solo. Lo stesso
edificio dell’Istituto testimonia questa dinamica: fu finanziato
dal ricco padre di Felix Weil, e per di più costruito
dall’architetto nazista Franz Roeckle. Lo stesso Horkheimer,
direttore negli anni dell’esilio americano, evitò di turbare i
suoi finanziatori evitando con cura la parola “marxista” nei vari
articoli pubblicati. Ciò non gli impedì, insieme ad Adorno, di
commentare con asprezza il conformismo repressivo degli Stati Uniti;
ma nemmeno gli impedì di vivere del danaro che ne proveniva.
Si può obiettare che una
filosofia così compromessa sia interamente da rigettare; e che per
di più non abbia alcuna presa oggi, in tempi di quietismo e fine
delle ideologie. Tutt’altro: l’aspetto interessante di Grand
Hotel Abyss è che Jeffries svela queste contraddizioni, ma non
le usa per liquidare la produzione francofortese. Anzi. La storia
della Scuola fu ricca anche di amicizia, di sincero impegno, e il
gruppo creò nuove categorie con cui possiamo misurare la temperatura
del presente: «Riconcettualizzarono il marxismo introducendo
elementi della psicanalisi freudiana, per comprendere meglio come il
movimento dialettico della storia verso un’utopia socialista
sembrava essersi bloccato. Si impegnarono contro l’ascesa di ciò
che chiamavano “industria culturale”, esplorando così una nuova
relazione fra cultura e politica, dove la prima fungeva da lacchè
del capitalismo eppure aveva il potenziale, per lo più irrealizzato,
di seppellirlo. In particolare, rifletterono su come la vita di ogni
giorno potesse diventare il teatro della rivoluzione e invece ne era
per gran parte l’opposto».
Meriti non da poco, e
ancora attuali: riletti oggi, i Minima Moralia o la Dialettica
dell’Illuminismo non sembrano affatto invecchiati. Del resto
viviamo in un mondo dove la libertà è spesso «libertà di
scegliere ciò che è sempre stato uguale», e che si regge su
diseguaglianze inique; dove il razzismo è tutt’altro che un
ricordo del passato, e l’effetto uniformante dell’industria
culturale appare quanto mai pervasivo.
Jeffries teme, in
particolare, gli effetti degli algoritmi delle grande piattaforme
digitali, che creano un mondo apparente fatto su misura di ciascuno e
«trasformano la liberazione dell’uomo in una prospettiva
terrificante».
Ma se il capitalismo è
tutt’altro che sepolto, lo stesso si può dire della sua critica.
Per tutti questi motivi la Scuola di Francoforte ha molto da dirci:
innanzitutto perché inocula il sospetto nei confronti di facili
celebrazioni dell’esistente, ricordandoci il valore di un pensiero
davvero radicale. Le osservazioni di Adorno sull’alienazione della
società tardo-industriale e sui pericoli delle teorie del progresso,
gli spunti di Marcuse sulla civiltà repressiva o le teorie
dell’amore di Erich Fromm conservano ancora tutta la loro forza.
Ma, in questa
appassionante cavalcata nel Novecento e oltre, Jeffries non elude mai
l’eterno problema: appunto cosa farne in concreto di questa
fertilità di pensiero. Come fu per i francofortesi, c’è sempre il
rischio di prendere una stanza nel Grand Hotel Abyss e dimenticare
che un mondo ingiusto andrebbe non solo criticato, ma anche cambiato.
Pagina 99, 26 novembre 2016
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