A metà dell’Ottocento
Charles Dickens già prefigurava «racconti per immagini» e, senza
cinepresa, inventava «dissolvenze», campi lunghi e close-up. Poi
venne D.W. Griffiith...
Foto di scena da Oliver
Twist (1922) di Frank Lloyd
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«... Griffith sapeva
vedere tutto con nettezza e chiarezza dickensiana così come Dickens,
dal canto suo, possedeva qualità cinematografiche, come capacità
visiva senso compositivo dell'inquadratura, primo piano e alterazione
dell'accento attraverso l'uso di obiettivi speciali». Secondo
Ejzenstejn, il cinema delle origini è tessuto con le parole e il
ritmo dell'autore del Circolo Pickwick, anzi, il cinema
americano nasce con lui quando si svincola dalla narrazione lineare e
passa al montaggio parallelo. «Come si può raccontare una storia
saltando in questo modo?» si chiede il produttore di fronte a Enoch
Arden, un corto del 1908 dove l'azione si sdoppia in due set
lontanissimi nello spazio. «Bene - disse Griffith - forse che
Dickens non scrive in questo modo?». «Sì - replicò il produttore
- ma quello è Dickens, quello è un romanzo, è una cosa ben
diversa». «Oh, non tanto poi. Questi sono racconti per immagini».
L'autore della Corazzata
Potiemkin, il teorico del montaggio, ricorda nel suo celebre
saggio Dickens, Griffith e noi - Lo sguardo indagatore, «fermo
come l'acciaio» il pioniere americano (incontrato a Los Angeles nel
1930) capace di cogliere i dettagli, di catturare con un'inquadratura
un intero paragrafo dello scrittore che a metà Ottocento prefigura
«racconti per immagini», e che senza macchina da presa inventa
«dissolvenze», campi lunghi e close-up. Quella sua meticolosa
descrizione della scena considerata da alcuni stucchevole, frutto di
una tecnica codificata ha il sapore futuribile del cinema, del
Christmas Carol di Robert Zemeckis, per esempio, capolavoro in
motion-capture 3D che trasferisce il volo notturno di Scrooge
dal 1843 al 2009 e lo fa piombare nella stanza luccicante del Natale
presente, un Santa Claus gigantesco e ridanciano, seduto su una
montagna di leccornie, visualizzata così da Dickens: «Uno
sull'altro, sul pavimento a formare una specie di trono, c'erano
tacchini, oche, cacciagione, pollame, salsicce, tortine di frutta
secca, budini natalizi, barili di ostriche, caldarroste, mele dalla
buccia rossa arance succose, pere succulente, enormi torte di fine
d'anno, tazzoni di ponce bollente che offuscavano la stanza col loro
vapore profumato» (traduzione di Ottavio Fatica I racconti di
fantasmi, ediz. Theoria). Ejzenstejn lo scopre «intimista» al
pari di Griffith, il regista di kolossal come Nascita di una
nazione e di Intolerance, e ne rintraccia il doppio stile,
«provinciale» e «superdinamico». Il riconoscimento a Hollywood
passa tra le righe di Dickens e approda a David Wark Griffith «per
dirlo semplicemente e senza equivoci: una rivelazione... per noi
giovani registi sovietici degli anni Venti». E a proposito della
vena «fiabesca» dickensiana, sostiene che «le accuse
d'inverosimiglianza vanno attribuite unicamente alla nostra...
ignoranza di Dickens», letto in età infantile e mai più analizzato
nei suoi meccanismi complessi che rimandano ai paesaggi metropolitani
inglesi, dilaniati da un'industrializzazione spietata quelli di un
Oliver rinchiuso in orfanotrofio e così affamato che «mi viene
voglia di mangiare il ragazzo che dorme nel letto accanto».
L'indignato Dickens, figlio di borghesi caduti in miseria ha vissuto
l'esperienza delle workhouse, infami reclusori, luoghi di
sfruttamento minorile, e li rievoca nei suoi racconti, «romanzi
sociali» dove l'immaginazione è il frutto dei deliri di bambini
costretti a divorare gli avanzi dei cani, ridotti ad automi,
sopravvissuti per miracolo. Prodigi suscitati dalla disperazione,
allucinazioni visive come quella del grillo parlante (rubato
da Collodi per il suo Pinocchio) di The Cricket on the
Heart, novella del 1845 trasferita sullo schermo da Griffith nel
1909. Ejzenstejn cita con ammirazione il racconto, «Si può
immaginare qualcosa di più lontano dal cinema? Treni, cowboys,
inseguimenti... e Il grillo del focolari». Sì, si può,
seguendo l'input della novella «Incominciò la cuccuma...»,- un
bricco di caffè (in originale: the kettle) che bolle sul
camino - è la chiave del primo fotogramma di tutti i tempi. «Per
quando strano possa sembrare, in quella cuccuma bollivano anche i
film. Proprio da qui, da Dickens, dal romanzo vittoriano nascono i
primi elementi dell'estetica cinematografica americana». Ma, subito
dopo, il regista russo mette a confronto due elementi antitetici, il
furore metropolitano del nuovo mondo di Griffith e «la Londra
vittoriana pacifica e patriarcale dei romanzi di Dickens»,
contraddizione risolta con una deliziosa constatazione: la velocità
del traffico e la vertiginosa fuga dei grattacieli «non esistono»,
anche New York è lenta e provinciale. Non esiste, però, neppure «la
Londra vittoriana, pacifica e patriarcale». Quella di Dickens era in
realtà una macchina stritola poveri, emarginati e operai, Ejzenstejn
lo sa bene, ma sembra prendere le distanze da Hollywood, da un
Griffith liberale e umanitario, un po' sentimentale, e da un Dickens
che amava rappresentare i buoni vecchi signori e le care vecchie dame
dell'Inghilterra vittoriana». Il grande cineasta appassionato di
Chaplin e Disney, rivendica per il cinema sovietico l'aspirazione
verso «uno stadio nuovo (socialista)», la superiorità di un cinema
anti-naturalistico, dalle profondità intellettuali, contrapposto
alla rappresentazione hollywoodiana del mondo. Era il 1944 quando il
cineasta di Riga scrisse il saggio, la guerra non era finita,
e lui vinceva il premio Stalin per Ivan il terribile parte I dopo
aver subito la censura su diversi progetti non graditi, lontani dal
«realismo socialista». La seconda parte del film (La congiura
dei Boiardi) non fu approvata e uscì postuma (1958) mentre la
terza venne sequestrata e quasi interamente distrutta. L'entusiasmo
per Dickens, Griffith e noi si spense nell'amarezza di una
rivoluzione negata. Quel «noi» si era eclissato. Ejzenstejn morì
nel 1948 (di dolore, probabilmente) all'età di 50 anni. E si può
immaginare che solo quattro anni prima il formalista russo avesse
ancora «grandi speranze», che fosse affascinato dal corpo a corpo
tra individuo e società messo in scena e in pagina dai due amati
autori, e che ne cogliesse la magnifica relazione
(politico-culturale) con il suo cinema delle grandi masse popolari.
Tanti Oliver Twist sulla scalinata di Odessa... Dissolvenza.
“alias il manifesto”,
4 febbraio 2012
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