MONACO
Nata a Vienna da una
famiglia della piccola borghesia ebraica, arpista in gioventù,
bruttina d'aspetto, Vicki Baum scrisse nell'«entre deux guerres»
libri di enorme successo. Si trattava di romanzi in cui non proprio
il gran mondo, ma un mondo in certa misura smagliante (aristocratici
spiantati ma ancora eleganti, misteriose avventuriere, celebri
danzatrici russe, ricchi affaristi), veniva osservato con occhio
piccolo-borghese per un pubblico di piccoli-borghesi. L'una e
l'altro, l'autrice e il suo pubblico, covando in petto l'ambizione
struggente di giungere un giorno a varcare la soglia di quel mondo.
La cornice che la Baum predilesse per ambientarvi le trame dei suoi
libri, furono i grandi alberghi. Cominciando nel 1929 da Menschen
im Hotel, che sarebbe divenuto nelle traduzioni e al cinema Grand
Hotel, proseguendo poi con Hotel Berlin, Hotel
Shanghai, Weekend al Waldorf, ed altri romanzetti che
avevano per fondale alberghi in montagna o in Riviera, tutti
beninteso di lusso.
In quelle pagine, milioni
di modesti impiegati, commesse, dattilografe di tutta Europa
trovarono di che immaginarsi, favoleggiare, un' altra vita. Schiere
di camerieri ossequiosi, cameriere in cresta che sistemavano sul
letto le vaporose camicie da notte e i pigiama di seta degli ospiti,
guardaportone in cilindro e palandrana che si precipitavano ad aprire
la porta delle automobili in arrivo, facchini in uniforme scura che
trasportavano le otto, dieci, dodici valigie con cui una coppia
approdava all'epoca in un Grand Hotel. E nelle halls, gli incontri
affascinanti che cambiano un destino. Più o meno nello stesso
periodo, non pochi altri scrittori (e quali scrittori: da Proust a
Mann, da Schnitzler a Zweig e a Roth) collocarono in buoni od ottimi
alberghi lunghi scorci dei loro romanzi. Ma la scrittrice dei Grand
Hotel restò, per il pubblico minuto, Vicki Baum. Quel pubblico non
aveva quasi certamente letto Morte a Venezia né Alla
ricerca del tempo perduto, ma leggeva avido i romanzi dell'ex
arpista viennese. E non a caso ripeteva spesso - quando s'azzardava a
filosofeggiare - l'insulsa frase che uno dei personaggi della Baum,
il pensoso dottor Otternschlag, pronuncia nelle pagine di Grand
Hotel e nei tre o quattro film che se ne trassero: «Grand Hotel:
gente che va, gente che viene, e tutto resta sempre uguale».
La Baum aveva insomma
lanciato una moda, che ebbe poi ampi ricaschi nel cinema italiano dei
«telefoni bianchi», nel cinema austro-tedesco e in quello
hollywoodiano. E forse trascinò autori di tutto rispetto (Carco,
Maugham, Morand, Coward, per citarne solo alcuni) ad indulgere
anch'essi nel tratteggio d'alberghi situati ad ogni possibile
latitudine, dall'Avana al Cairo e a Singapore. Del resto, va detto
che l'alone leggendario di cui i Grand Hotel erano circondati nel
ventennio tra le due guerre mondiali, era più che meritato. Spuntati
verso la fine dell'Ottocento nelle località turistiche montane o
balneari, e nelle grandi città ai primissimi del Novecento, gli
alberghi di lusso avevano nomi che ne indicavano chiaramente le
ambizioni, la classe e il ruolo: Royal, Palace, Kaiserhof, Imperial,
Konighof, Majestic, Regence, Regina, Savoy. E ai tempi della Baum
conservavano ancora il fasto delle origini, con in più il "comfort"
della modernità che vi aveva portato un geniale albergatore
svizzero, César Ritz.
Né i Grand Hotel erano
molto cambiati - salvo, ovviamente, quelli distrutti dai
bombardamenti negli anni della Seconda guerra mondiale - quando la
gente riprese a viaggiare intorno alla fine dei Quaranta. Le
monumentali sale da bagno rivestite di marmo, le massicce e
scintillanti rubinetterie, la magnifica spugna degli accappatoi e
asciugamani. I tight impeccabili dei "concierges", il loro
portamento dignitoso, le loro sterminate conoscenze in fatto di
treni, battelli, strade da percorrere, fiorai, spettacoli e musei.
L'inarrivabile stiratura delle giacche bianche dei barmen,
l'orchestrina che suonava all'ora del tè un po' di musica classica e
qualche canzone. Il luccichio dei cristalli e dei portavivande di
"Sheffield" nelle sale da pranzo, dove gli uomini
scendevano in abito rigorosamente scuro e le signore in "mezzo
lungo", le porcellane e la posateria Christofle sui grandi
vassoi con cui veniva portata nelle camere la colazione del mattino.
Gli enormi fasci di fiori freschi nei vasi della hall, lo scatto con
cui "grooms" o "boys" (in Spagna chiamati
"botones" per la doppia fila di bottoni che ne decorava il
giubbetto) accorrevano ad un cenno del cliente.
Questo mondo, inutile
dirlo, è ormai scomparso da decenni. Languiva già alla fine dei
Cinquanta dello scorso secolo, e negli ultimi Sessanta fu
definitivamente inghiottito dalle oscenità del turismo di massa. Da
qui l'amara nostalgia con cui si visita la mostra Grand Hotel
allestita dalla Literaturhaus a Monaco di Baviera (fotografie,
documenti, oggetti e film) che rievocano "l'age d'or" degli
alberghi di lusso, e in particolare l'importanza che essi assunsero
nell'opera d'alcuni famosi scrittori del Novecento. Perché, come s'è
già detto, Vicki Baum introdusse il mito del Grand Hotel nelle
fantasie piccolo-borghesi: ma anche la buona letteratura del
Novecento (e finanche una parte di quella che consideriamo immortale)
si servì per alcuni suoi fondali e atmosfere dei saloni, sale da
pranzo e clientele dei grandi alberghi. A cominciare, ovviamente, da
Thomas Mann e Marcel Proust. Provvisto d'ampie possibilità
economiche (la dote della moglie Katia Pringsheim, i sostanziosi
diritti d' autore), Mann scendeva soltanto in alberghi che potessero
vantare una «exklusiven Clientèle». Forse perché quelle erano al
tempo le esigenze d'un "grande borghese", o forse - come
avrebbe più tardi suggerito il figlio Klaus nelle pagine della
Svolta - perché in famiglia circolava un certo snobismo. In
ogni caso, Mann viaggiava molto. Una delle fotografie più belle
dell'esposizione alla Literaturhaus lo mostra al finestrino d'un
Wagon-lit in partenza, l'impermeabile poggiato elegantemente sulle
spalle, il sigaro già acceso. In un' altra foto sta riempiendo, o
forse aprendo, una sacca di coccodrillo istoriata con le etichette
variopinte che sino a qualche decennio fa gli alberghi incollavano
sulle valigie degli ospiti. E in un' altra ancora, un "groom"
dell' Adlon di Berlino gli sta porgendo su un piccolo vassoio
argentato la lettera appena giunta all' hotel.
Quanti alberghi - ricorda
la mostra di Monaco-, col loro nome o uno di fantasia, nei romanzi di
Mann. Ce n' è uno in Altezza reale, un altro - a Oresund, sulla
costa meridionale della Danimarca - dove si rifugia Tonio Kroeger, e
ce n' è un' intera serie nelle Confessioni di Felix Krull: il Savoy
a Lisbona (nome fittizio per l'Avenida Palace) dove il giovanissimo
Felix, nella scena più erotica di tutto Mann, entra nel letto di
Madame Houpflé, quindi il Saint James and Albany di Parigi, il Baur
au Lac di Zurigo, il Park a Dusseldorf. Ed altri se ne potrebbero
spigolare con un po' di pazienza dai suoi libri. Ma l'albergo più
importante nella produzione manniana, quello in cui si svolge quasi
intera la vicenda di Morte a Venezia, è ovviamente il Des
Bains. Ritratto con tale minuzia che «quando s'entra nel salone»,
diceva Luchino Visconti mentre preparava il film che trasse dal
racconto, «sembra ancora di vedere il Prof. Aschenbach che legge i
giornali, e poco lontano Tadzo con la famiglia». Quanto a Proust,
valga quel che ha scritto il più perspicace dei suoi biografi,
George D. Painter: «Per tutta la vita, lontano dalla sua camera da
letto si sentì a suo agio solo negli alberghi di lusso, nei salotti
della buona società e nei grandi restaurants». Ecco infatti lo
spazio - cento, centocinquanta pagine? - che occupa nella Recherche
il Grand Hotel de Cabourg (Balbec): le camere, la vista dalle camere,
l'ascensore e soprattutto il salone da pranzo pieno di finestre che
davano sul lungomare, non tanto chic in verità («l'ambiente è dei
più comuni, la gente indescrivibile», scriveva Proust a Robert de
Billy), ma ricchissimo di spunti che sarebbero serviti a costruire
molti personaggi del libro. Ecco i cinque mesi trascorsi a Versailles
senza metter piede fuori dall' Hotel des Réservoirs. E per finire, i
lunghi periodi in cui abitò durante la Prima guerra mondiale al Ritz
di Parigi, i pranzi ai quali invitava Paul Morand, la Soutzo e uno
stuolo di contesse, poi distribuendo al personale mance spropositate.
Il Ritz finì col diventare un territorio di caccia, dove Proust -
con l'aiuto di Olivier Dabescat, il "maitre de restaurant"
dell' epoca - scovava con pazienza i tic, i vizi, le battute
(soprattutto le battute, molte delle quasi sarebbero entrate pari
pari nella Recherche) del "grand monde": i Murat, i
Gramont, i Clermont-Tonnerre, il duca di Sutherland, l'ex re del
Portogallo, la coppia Castellane e la regina Maria di Romania. Frasi
spiritose, pungenti, a volte anche crudeli: tutta un'altra cosa, per
nostra fortuna, di quel «Gente che va, gente che viene» cui la Baum
affidò il Pensiero del suo romanzo più famoso.
Il rapporto tra la
narrativa del Novecento e i Grand Hotel meriterebbe d'essere indagato
a fondo. Che in quella letteratura ci fossero un bel po' d' alberghi,
è infatti cosa nota. Ma dall'esposizione di Monaco emerge che non
una parte marginale, bensì una assai rilevante, delle trame che
leggiamo nei romanzi del secolo scorso, si svolge tra camere, saloni,
giardini e terrazze degli alberghi. Da Schnitzler a Durrematt, da
Zweig a Roth, dalla Christie a Moravia e a Nabokov. E parecchi sono
gli scrittori che la mostra ha trascurato: per esempio Morand e
Waugh, Faulkner, Fitzgerald e Capote, Remarque e Green. Senza dire
che a volte gli scrittori sono morti, negli alberghi. L'illegibile
Raymond Roussel al Grand Hotel et des Palmes a Palermo, a Parigi
Oscar Wilde all'Hotel d'Alsace, Joseph Roth nel piccolo Hotel de
Tournon, e Tennesse Williams all' Elysée. Oltre, salvo errore,
Nabokov al Palace di Montreux, dove aveva vissuto per molti anni in
una "suite" con vista sul Lemano, avendo recuperata dopo
vari decenni, con i guadagni di Lolita, l'agiatezza dei Nabokov prima
della Rivoluzione russa.
Difficile dire che
impressione possano ricavare dall'esposizione della Literaturhaus i
molti giovani che vi s'avvicendano in questi giorni. Con quale animo
guardino le foto dei Grand Hotel, le loro stupende carte da lettere,
i "menus" in francese, i servizi da tè in stile "Déco".
Probabilmente, il loro sguardo è lo stesso con cui hanno guardato o
guarderanno gli scavi di Pompei. Un'epoca lontanissima, un mondo
svanito. Eppure resta ancor oggi in circolazione una sparuta,
zoppicante pattuglia di settantenni avviati agli ottanta, la cui
memoria conserva intatte le immagini dal vero di quella magnifica
civiltà. E nella pattuglia ci sono alcuni giornalisti.
Grazie alla prodigalità
dei due maggiori giornali italiani dell'epoca (Il Corriere della Sera
e La Stampa) una ventina di inviati speciali fecero infatti in tempo,
tra l'inizio e la fine dei Sessanta, a cogliere gli ultimi bagliori
dell' "hotellerie" di lusso. Il King David di Gerusalemme e
il Nyle Hilton del Cairo durante la guerra dei Sei giorni, il Grande
Bretagne di Atene nei giorni del "putsch" dei colonnelli,
il Sacher di Vienna quando i sovietici invasero la Cecoslovacchia, il
Saint Georges di Beirut nel va e vieni dalle crisi mediorientali, il
Peninsula di Hong Kong nei primi avvicinamenti alla Cina, il Raffles
di Singapore prima delle molte ristrutturazioni, il Palace e il Ritz
di Madrid nella penultima e ultima fase del franchismo, il Ritz di
Lisbona alla fine del salazarismo, il Savoy di Londra, il Mount
Nelson di Città del Capo, il Reid' s di Madeira, e via dicendo.
Si viveva bene, ancora in
quegli anni, nei Grand Hotel. Un'atmosfera tranquilla, senza folle
scaricate dagli autobus né rumori, i portieri solenni come
ambasciatori, gli ascensori foderati di vecchi legni, i sommeliers
competenti, le prime colazioni assolutamente perfette. E poi, in
questo Vicki Baum aveva ragione, vi si vedevano personaggi che
sarebbe stato difficile incontrare altrove. Cole Porter nella sua
poltrona a rotelle, in partenza per le Cicladi con un gruppo d'amici,
al Grande Bretagne di Atene, Max Frisch con una giovane compagna
(forse la protagonista di Montauk) al bar del Plaza di New York,
Eugenio Montale al King David, Erich Maria Remarque con la moglie
Paulette Goddard al Beau Rivage di Losanna, David Lean e Julie
Christie che studiavano la sceneggiatura di Zivago nella hall del
Ritz di Madrid, don Juan di Borbone - massiccio, sanguigno e un po'
brillo - al bar del Ritz di Lisbona. Certamente meglio che vedere,
come succede adesso, "nuovi russi" vestiti Trussardi o
Cardin e calzati Tod' s, asiatici miracolati dal galoppo delle loro
Borse, italiani convenuti per una partita di Champion's League e già
vocianti ancor prima d'arrivare allo stadio. Un materiale che neppure
la Baum avrebbe avuto lo stomaco d'utilizzare nei suoi romanzi.
“la Repubblica”, 22
aprile 2007
Nessun commento:
Posta un commento