La signora Coletti entrò
nella stanza e accortasi con un'occhiata di quello che stavamo
leggendo, ci strappò il volume di mano. Libro galeotto se ma uno ce
n'è stato: l'edizione originale neogreca delle poesie di
Constantinos Kavafis. La signora Coletti era una delle nipoti del
poeta, aveva sposato un italiano e suo figlio era diventato mio
amico.
Era l'estate del
Cinquanta e un pezzo della famiglia Kavafis si era trasferito a
Venezia perché la signora Coletti potesse frequentare ogni notte
fino all'alba i saloni del Casinò. Giocatrice incallita ma anche
moralista al punto di proibirci la lettura di quei versi che secondo
lei ci avrebbero messi su una cattiva strada. Ma la Signora non
sapeva che la cosa era già fatta e che quelle poesie ci
appartenevano più di quanto lei potesse immaginare: «Giovinezza
corrotta fu matrice.....».
Continuammo a leggere di
nascosto e il mio amico a tradurre all'impronta perché già allora
eravamo consapevoli dell'influsso, quasi un marchio indelebile che
Kavafis ha da sempre esercitato su coloro che lo hanno accostato. Se
non ricordo male Montale, in una dichiarazione non più confermata,
ha negato che la poesia di Kavafis si ispirasse a personali
esperienze omosessuali. Forse più semplicemente Montale voleva tirar
fuori questa poesia da una categoria limitativa per affermare la
molteplicità dei suoi strati. Quanto a coloro che hanno
personalmente incontrato Kavafis ci hanno lasciato bellissime
testimonianze, come una serie di riflessi della sua poesia. Basti il
«Ricordo» di Ungaretti, o il racconto della visita di Nikos
Kazantzakis; gli scritti di Seferis, le pagine di E. M. Forster, il
saggio della Yourcenar. Tra costoro il romanziere e poeta inglese
Lawrence Durrell gli ha dedicato molto di più di un ritratto. Nel
romanzo Justine, uscito in Italia con una prefazione di
Ellemire Zolla, è una sorta di genius loci che si manifesta
nelle recite delle sue poesie fatte da Justine, la belle juive
del romanzo: «Ascoltandola recitare quei versi, sfiorare con
tenerezza ogni sillaba del pensoso poeta ironico, subii ancora una
volta lo strano potere ubiquo della città. E con che sentimento
giunse al passo dove il vecchio poeta getta da un canto la vecchia
lettera d'amore che lo aveva commosso ed esclama: Mi affaccio
tristemente al balcone...».
Durrell evoca gli anni e
gli ambienti in cui Kavafis è vissuto ad Alessandria d'Egitto, tra
gli ultimi anni dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento. Città
abitata dal fantasma di Antonio morente per amore cui Kavafis ha
dedicato un delle sue più memorabili poesie per realizzare una
potente simbiosi di tre destini.: di Alessandria, di Antonio e dello
stesso poeta. L'emergenza storica di Antonio e di altri personaggi
del mondo ellenistico romano e bizantino occupano una sola parte del
corpus kavafiano. Altre figure e ambienti del mondo povero ed escluso
hanno premuto sulla sua vita emozionale e immaginativa.
Un'inclinazione incoercibile, come risulta da questa sua rara
testimonianza: «Mi piace e mi commuove la bellezza del popolo, dei
giovani poveri. Servi operai, piccoli impiegati nel commercio,
dipendenti di negozi. È la ricompensa, si direbbe, delle loro
privazioni. Il lavoro intenso e il continuo movimento rendono sottili
e simmetrici i loro corpi...».
Poeta per pochi, stampava
i suoi versi su fogli volanti per una orgogliosa selezione dei suoi
lettori; ma alla fine con un senso di grande amarezza: «Com'è
ingiusto che io sia un tale genio e né la mia fama sia nota a tutti,
né io abbia alcun riconoscimento». La sua fama è oggi
fortunatamente protetta da una nuova schiera di studiosi in patria e
dalle traduzioni italiane. Senza dover ricorrere alla
contrapposizione crociana della traduzione bella e infedele e di
quella brutta e fedele, la trasposizione di quei suoni nella nostra
lingua è sempre stata una sfida. Compiuta in modo totale da Filippo
Maria Pontani, e continuata con felicissimi risultati da Nelo Risi e
Margherita Dàlmati in un tandem di straordinaria intesa. Un caso a
sé stante sembrano costituire le traduzioni di Guido Ceronetti,
rifinite come un prezioso oggetto artigianale, in cui l'artigiano di
genio ha messo se stesso. Fa meraviglia che la cultura poetica
italiana non si sia annesse alcune di queste traduzioni come cosa
propria. Così come lo sono alcune traduzioni di Montale.
Ultimo in ordine di tempo
il volume kavafiano curato da Paola Maria Minucci (Poesie d'amore
e della memoria, «Grandi tascabili» Newton, pp. 294, € 6,00).
La curatrice è docente alla Sapienza di letteratura neogreca,
esperta comparatista di poesia neogreca e poesia italiana ed europea.
La sua traduzione ci riporta ai vecchi assilli. L'impressione è che
filologicamente non faccia una grinza; quindi del tutto affidabile,
ma senza gli scatti linguistici di Ceronetti o la musica densa di
raffinate modulazioni come nella versione Risi-Dàlmati. Opera
tuttavia molto utile anche per la nota introduttiva, che offre un
quadro perspicuo della fortuna di Kavafis in Italia.
“Alias - il manifesto”
13 gennaio 2007
Nessun commento:
Posta un commento