10.3.17

Estasi e spie antiquarie. Le lettere di Johann Joachim Winckelmann (Orietta Rossi Pinelli)

Winckelmann era morto da diciannove anni quando, nel 1787, Goethe si trovava a Roma e prendeva appunti per quello che sarebbe stato pubblicato, anni dopo, come il diario del Viaggio in Italia. In quel testo compiva una mirabile sintesi del contributo che l’antiquario tedesco aveva dato allo studio dell’antichità: “Fu Winckelmann per primo a farci sentire la necessità di distinguere tra varie epoche e a tracciare la storia degli stili nella loro graduale crescita e decadenza”. L’idea della storia come processo di “crescita e decadenza” risaliva a secoli prima, ma la definizione di una storia degli stili coniugata a un modello ciclico delle umane vicende non era stato, prima di allora, organizzato in termini così sistematici. Un modello destinato a un’ampia e prolungata fortuna a cui non corrispose nel tempo altrettanta attenzione al suo autore, tranne per alcuni studi fondamentali soprattutto in ambito tedesco. Solo negli ultimi decenni, al contrario, l’attenzione degli studiosi si è fin troppo concentrata sulla personalità dell’antiquario (nato nel 1717 nella Marca di Brandeburgo da un’umile famiglia di calzolai) a scapito però di una ricostruzione capillare del ricchissimo contesto di storici, eruditi, antiquari nel quale Winckelmann era immerso e al quale faceva esplicito o implicito riferimento. Non si può dunque che salutare con immensa gratitudine l’edizione critica, voluta dall’Istituto italiano di studi germanici, e magistralmente curata dalla germanista Maria Fancelli e dalla storica dell’arte Joselita Raspi Serra, del corpus completo delle lettere di Winckelmann, dal 1742 al 1768, in tre volumi, tradotto in italiano. L’opera, corredata da schede filologiche a commento di ogni epistola, è completata da un prezioso indice dei nomi che consente l’uso trasversale e tematico della monumentale impresa.

La ricerca della libertà
Senza dubbio però la sequenza cronologica e l’uniformità linguistica delle missive inducono a una prima lettura sequenziale, come si trattasse di un romanzo epistolare, genere molto in voga nel Settecento europeo. Un approccio, questo, che restituisce con grande immediatezza la biografia intellettuale e umana del protagonista. Le sue difficoltà e i ripensamenti nelle fasi operative (“Quante volte ho ricopiato la mia Storia dell’Arte e quanti primi abbozzi di questo lavoro”) ma anche aspetti molto materiali come quel costante, a volte ossessivo, problema di denaro, che non è mai sufficiente soprattutto nei primi tempi, neppure per comprarsi un abito. Tanto meno lo è per garantirsi la vecchiaia. Nel passaggio da Dresda a Roma si coglie un lieve allentarsi delle apprensioni, che poi nel tempo si diradarono sempre più ma mai del tutto. L’assillo era dato anche dalla volontà di lasciare traccia di sé nelle vicende culturali presenti e future. Risoluta appare la sua ricerca, più volte proclamata, di spazi di “libertà” intellettuale e personale, proprio perché la sua vita dipendeva, naturalmente, dalla generosità dei vari mecenati, compresa quella del cardinal Alessandro Albani.

Solo con costui in effetti Winckelmann raggiunse “la massima libertà di studiare” e arrivò a considerarsi una “delle rare persone al mondo che sono perfettamente felici”. Però la sua vita non risulta mai perfettamente felice. Anche la sua amicizia più forte, quella con il pittore boemo Anton Raphael Mengs, fu segnata da momenti di tensioni e da ombre. All’artista però riconosceva il merito di avergli fatto acquistare un po’ di tranquillità e soprattutto di avergli dato “l’occasione di conoscere i segreti dell’arte antica”. Le lettere documentano il lungo e travagliato sodalizio. Testimoniano, allo stesso tempo, le inclinazioni di uno studioso diffidente e poco generoso, come nel suo difficile rapporto con Anne-Claude-Philippe Caylus, di cui respinse i tentativi di accedere alla collezione Albani perché riteneva di essere l’unico ad avere il diritto di studiarne le opere.

L’esperienza romana
Accanto alla ricostruzione biografica, quest’opera si offre a letture assai differenziate. Nei tre volumi, ma soprattutto nel secondo e nel terzo, grande evidenza ha la città di Roma, pulsante di presenze e di scambi culturali, ma anche ritratta nella sua fisicità. All’intollerabile frastuono della Roma popolare, anche notturna, fa da contraltare l’incanto dei panorami godibili dalle abitazioni aristocratiche. “Dalla mia stanza [in palazzo Albani]abbraccio tutta Roma con uno sguardo”. Al lamento per l’eccessivo costo dei Caffè, si contrappone l’estasi nelle sale del Museo Capitolino, aperto “dalla mattina alla sera” agli artisti e agli eruditi da poco più di due decenni. E ancora, la presenza di stranieri altolocati o studiosi celebri, che garantiscono una rete di scambi e d’incontri e che a volte si traducono in amicizie a lungo termine. Stranieri a cui Winckelmann faceva volentieri da “cicerone”, come molti altri eruditi, antiquari, mercanti d’arte attivi nella capitale pontificia.
Le pagine di quest’opera sono popolate anche da personaggi che hanno avuto una sporadica frequentazione con lo studioso ma che sono stati presenze significative a Roma, magari solo per qualche anno. Si pensi al più volte ricordato Robert Adam, grande architetto scozzese, amico di Piranesi. Winckelmann ebbe modo di analizzare e di apprezzare sia il magnifico corredo di immagini che i testi della sua opera dedicata al Palazzo di Diocleziano in Dalmazia. Lui, che era sempre assillato dalle difficoltà editoriali e soprattutto dal dover provvedere ai costi delle illustrazioni. Dalle lettere affiora anche l’attività clandestina di chi scavava illegalmente: le “spie antiquarie” di cui si serviva il cardinal Albani, per ampliare la sua collezione. E tanti altri temi ancora possono essere ricostruiti con l’aiuto delle schede e dell’indice dei nomi. Tra questi il restauro, i falsi, il crudele tranello teso a Winckelmann dall’amico Mengs e da Giovanni Casanova con “ritrovamento” del finto affresco “antico” con Giove e Ganimede, opera in realtà dipinta dallo stesso Mengs. E ancora, le mansioni, non gravose, del Prefetto delle antichità di Roma, carica che Winckelmann ricoprì dal 1763, quasi una sine cura. E infine la vita quotidiana e i ritrovamenti, in città care all’antiquario, come Firenze ma soprattutto Napoli. Uno strumento d’indagine per percorsi incrociati che contribuirà di sicuro agli studi su quei decenni e potrà coinvolgere piacevolmente anche un pubblico di lettori curiosi.

L'Indice dei libri del mese, Marzo 2017

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