TORINO
Ha scoperto la filosofia
grazie all'amore, poi la filosofia è diventata l'amore d'una vita.
La ragione per cui mettere in gioco un'intera vita, senza
compromessi, con coraggio e dignità. L'ungherese Agnes Heller, 80
anni, uno dei più importanti pensatori della modernità,
sopravvissuta all'Olocausto (suo padre morì), avrebbe voluto fare la
scienziata nel suo Paese appena uscito dalla guerra. Il fidanzato la
portò a una lezione di Lukàcs. Lei afferrò poco di quelle parole
su Hegel, ma fu una folgorazione, decise di abbandonare numeri e
formule per distillare il sapere umano. Ma nell'Ungheria socialista
degli Anni 50 e 60, finita dall'altra parte della cortina di ferro,
la filosofia era materia da maneggiare con più cura di atomi e
materia. Venne espulsa dal partito comunista nel '49, poi riammessa,
quindi espulsa di nuovo nel '58 («perché c'erano due alternative, o
quella del partito o quella della filosofia»). Chi era escluso
stentava a vivere, studiare, ricercare, pubblicare. La Heller se la
cavò facendo l'insegnante, ricerche sociologiche, subendo, però, la
pressione della polizia, le spie, [ i finti amici. Alla fine degli
Anni 70, la scelta di espatriare. Prima l'Australia, poi New York.
Adesso fa la spola tra la New School di New York e Budapest.
Professoressa
Heller, quanto è stato importante Marx importante Marx nella sua
vita personale?
«Sono stata studentessa
di Lukàcs. Lui si definiva marxista, e così anch'io ho creduto di
esserlo. Dopo guerra, morte, Olocausto, il comunismo sembrava offrire
soluzioni per superare la sofferenza e l'oppressione, prometteva una
redenzione per l'umanità. Ma scoprii ben presto che l'essenza del
marxismo era buona, ma io rigettavo la rivoluzione del proletariato
che era un'idea fasulla. Mi consideravo marxista, senza aver mai
letto praticamente niente di Marx. Fino ai primi Anni 50, Marx, in
Ungheria era una materia chiusa. Era difficile leggerlo,
interpretarlo al di fuori dell'ortodossia. In un certo senso
cominciai a sentirmi marxista perché ero diventata ostile al partito
comunista. Sembra un controsenso. Ma la vita quotidiana di allora era
spesso un tragico controsenso».
Quando è avvenuta
la vera scoperta di Marx?
«Nel '53 Nagy fu
nominato primo ministro e molte cose cambiarono. Parlava un
linguaggio diverso, la gente usciva dalle prigioni. Da quel momento
io e altri giovani filosofi abbiamo scoperto un Marx diverso da
quello del Capitale. A quel punto sono diventata una "vera"
marxista perché ho potuto leggere direttamente i testi, i suoi
testi. Intorno a Lukàcs si formò un gruppo di studio per la
"rinascenza" di Marx, significava negare le interpretazioni
esistenti e ritornare alle radici di Marx per capire che cosa aveva
davvero detto. Molti si innamorarono del giovane Marx, dei
Manoscritti di Parigi. Sentivamo
che l'essenza del marxismo era buona, anche se l'apparenza era
cattiva. Io rigettai però aspetti molto importanti di Marx come il
paradigma della produzione, del lavoro, il proletariato come soggetto
della rivoluzione. Invece di rivoluzione politica, parlavo di
rivoluzione della vita quotidiana. Insomma sono diventata una "new
leftist" prima che la "nuova sinistra" si sviluppasse
nel '68, e ho cominciato ad allontanarmi da Marx, a guardarlo in
maniera assolutamente critica».
Si sente ancora
marxista?
«Non
sono marxista, e forse non lo sono mai stata nel senso ortodosso del
termine, come dicevano i dirigenti del partito. In questo il
partito aveva ragione... Non sono nessun "ista", sono
semplicemente me stessa. Un giorno a Foucault chiesero se era
strutturalista o poststrutturalista, lui rispose io sono Foucault.
Io sono Àgnes Heller».
Di fronte alla
crisi della società liberale, forse anche per disperazione e
pentimento, qualcuno ricomincia a parlare di Marx. E' possibile
riscoprirlo?
«Marx è stato uno dei
più significativi pensatori del XIX secolo, può continuare a essere
letto, e reinterpretato. Farlo non significa necessariamente essere
marxisti. Se leggi Hegel, non per questo sei hegeliano. Può ancora
essere utilizzato? La questione è aperta. Ho un atteggiamento
ambivalente nei suoi confronti, credo che sinistra» si per certi
versi sì, e per altri no. La sua descrizione del capitalismo è
ancora molto valida, ma ciò che disse a proposito del collasso del
capitalismo, della rivoluzione proletaria, della società comunista,
è irrilevante».
È stato difficile
vivere e fare filosofia lontano dal suo Paese?
«Sono stata lontano dal
mio Paese dal '79 all'89. Dieci anni non sono granché. È stato più
difficile fare filosofia quando vivevo "nel" mio Paese,
perché non ero libera di frequentare biblioteche, discutere. Parlare
di "Paese" è comunque più importante dal punto di vista
politico che filosofico, la filosofia è qualcosa di molto generale.
Se vai a Teheran, in Cina, trovi persone interessate agli stessi
problemi che ci sono a New York o Londra. La forma specifica nel "mio
Paese" è politica, perché non sono solo una filosofa, sono
anche una cittadina. Interagisco con la società civile nella quale
vivo, con i miei simili. Amo avere contatti con gli altri. Sono molto
presente nei mass media, dove cerco di usare un linguaggio poco
filosofico per essere compresa da tutti».
Il filosofo può
cambiare il mondo?
«Forse è meglio che non
abbia l'ambizione di farlo, nelle società bolsceviche ci sono stati
esempi e s'è visto com'è andata a finire».
Nella sua lezione
di oggi, a Torino, sul corpo, lei sfiora i temi che la appassionano
da decenni, i bisogni emotivi, le relazione tra gli esseri umani...
«Da Aristotele, che ha
lodato l'autokephalos, l'uomo che non ha bisogno di altri uomini,
fino a Kant, che ci consigliò di abbandonare i nostri sentimenti e
di obbedire solamente al comando della "ragion pura pratica"
dentro di noi, la perfetta autonomia di ogni singolo essere umano è
stata concepita come l'apice della perfezione. Ma lo è? La maggior
parte dei filosofi concorda sul fatto che non possa esserlo e che,
quand'anche lo fosse, non si potrebbe sapere se essa sia stata
veramente raggiunta. Quello che voglio dire è diverso: la perfetta
autonomia individuale trasformerebbe gli esseri umani in mostri».
“La Stampa”, 17
novembre 2008
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