New York
Alle 13 di lunedì 20
aprile 2015, Rob Kuznia si era abituato già da qualche settimana al
suo nuovo lavoro alla Shoah Foundation della University of Southern
California di Los Angeles. Un ripiego, certo, dopo aver passato oltre
dieci anni a consumare le suole delle scarpe sulle strade, nelle
scuole, nei tribunali e nei palazzi del potere dell’area
metropolitana della città. Ma anche un sollievo, visto che in questo
modo, facendo il giornalista in una piccola pubblicazione, non
riusciva ad arrivare alla fine del mese. E tutto sommato, nonostante
l’interesse per questa professione, lui e la moglie erano
abbastanza stufi di «vivere in una condizione precaria», mi dice
Kuznia, che quel lunedì è stato premiato con il Pulitzer per un
reportage su uno scandalo scolastico scritto insieme a due ex
colleghi del Daily Breeze.
È passato un anno e
mezzo da quel giorno, e la crisi che ha colpito il giornalismo
americano non è per nulla finita anzi continua a essere molto dura,
soprattutto con i quotidiani locali. «Credo che il senso di locale
sia iniziato a cambiare molto prima della crisi dei quotidiani. Credo
sia iniziato a cambiare quando gli americani hanno iniziano a
spostarsi», ad abbandonare le aree rurali, ha detto in un’intervista
il direttore del “New York Times”, Dean Baquet, convinto che la
crisi dell’informazione locale sia un pericolo non solo per il
giornalismo ma anche per la democrazia.
Ci sono però anche molti
segni positivi. Un’anima raffinata come quella di David Carr –
esperto di media e decano dei reporter al “New York Times”,
scomparso nel 2015 – sosteneva che, nonostante le difficoltà, c’è
poco da lamentarsi. Anzi, dovremmo essere felicissimi perché «stiamo
entrando nell’età dell’oro del giornalismo». Un’età nella
quale ci sarà sempre più bisogno di notizie locali e iperlocali di
qualità.
Se considerassimo solo le
tirature e i numeri di quotidiani attivi negli Stati Uniti il futuro
non sembra poi così radioso. Dal 2004 al 2014 sono stati chiusi
oltre 100 giornali, anche se dall’ultimo rapporto sullo stato del
giornalismo del Pew Research Center sembra che la situazione si sia
stabilizzata dopo la grande depressione del giornalismo americano che
tra il 1994 e il 2014 ha bruciato 20 mila posti, il 39% della forza
lavoro del settore. Se invece il punto di riferimento fossero
innovazione e qualità, in questi ultimi due anni ci sono stati
segnali chiari di una ripresa del giornalismo, soprattutto di quello
che si occupa delle piccole comunità. «Il giornalismo locale si
trova ancora in pericolo, ma ci sono segni incoraggianti ed esempi di
iniziative online come Charlotte Agenda e Daily Philly che
funzionano bene e riescono a sostenersi economicamente», mi dice
Benjamin Mullin del Poynter Institute, tra i migliori centri per lo
studio del giornalismo nel mondo.
Attraverso il gruppo
Times Publishing Company, Poynter controlla il “Tampa Bay Times”
di St. Petersburg, in Florida, un esempio perfetto per descrivere il
cambiamento del giornalismo locale americano: ha vinto 12 Pulitzer
(l’ultimo quest’anno) e dopo il tracollo delle copie cartacee è
riuscito a costruirsi un fortissimo gruppo di lettori online grazie a
investimenti mirati allo sviluppo di storie digitali. Ma il “Tampa
Bay Times” è solo uno dei giornali che sta guidando questa
rinascita. Il “Des Moines Register” – quotidiano della capitale
dell’Iowa di proprietà del colosso dell’editoria Gannett – ha
puntato sullo sviluppo tecnologico della sua redazione, scommettendo
anche sul giornalismo virtuale, una scelta molto rara per le
redazioni più piccole. Anche molte startup hanno deciso di dedicarsi
all’informazione locale. Watchup ha raccolto quasi 5 milioni di
dollari proponendo la prima piattaforma che distribuisce notizie
video locali di qualità su dispositivi mobili.
C’è da dire che il
giornalismo locale non ha solo a che fare con aree rurali disperse
nel nulla. Anche la città di New York e il New Jersey offrono molti
spunti a riguardo. Nella metropoli americana ci sono decine di gruppi
media che si occupano in modo approfondito dei singoli quartieri,
osservando da vicino le istituzioni e garantendo maggiore
trasparenza. Tra questi, pubblicazioni che puntano solo sul digitale
come “Dnainfo” e “Gothamist” continuano a raccontare la città
da vicino raccogliendo pubblicità e facendo abbastanza profitti per
continuare a crescere.
Secondo Carrie Brown
della Cuny Graduate School of Journalism di New York è fondamentale
puntare su nuovi modelli e «cercare di restare connessi in modo
molto più diretto con i lettori e le comunità a cui si fa
riferimento. Più piccole sono, meglio è», continua Brown che
insieme a Jeff Jarvis ha creato il primo corso in social
journalism pensato per far ritornare a crescere il giornalismo
locale, liberandolo dalla dipendenza dalla pubblicità e impostando
piattaforme digitali finanziate direttamente dalle comunità.
Dall’altra parte
dell’Hudson River, in New Jersey, invece, da poco è nata una delle
iniziative più interessanti del settore: si chiama Local News Lab, è
finanziata dalla Dodge Foundation e coinvolge 150 pubblicazioni
locali e iper-locali dello Stato. Ne parlo con Joe Amditis che ha
appena ricevuto una borsa di ricerca per lavorare allo sviluppo
mobile di questi quotidiani. «Oltre a studiare nuovi modi per
distribuire le notizie locali attraverso gli smartphone facciamo
incontri con i quotidiani che hanno aderito al programma». Amditis è
convinto che il lavoro su piccole comunità è un modo «diretto e
molto semplice per capire quale impatto hai sul tuo pubblico».
Il problema infatti non è
certo l’assenza di un pubblico, ma l’incapacità di raggiungerlo.
Il punto di forza dei piccoli quotidiani è che Facebook spesso non è
in grado di lavorare sulle piccole geografie. «Facebook tende a
mostrarci solo notizie basate su quello che un algoritmo ritiene noi
vogliamo vedere – spiega Benjamin Mullin –. Invece i quotidiani
locali sono l’ultima piazza pubblica rimasta nella nostra società,
che non è mediata da un algoritmo e in cui le persone possono
discutere, confrontarsi su notizie sulle quali sono in accordo o in
disaccordo. E penso che questa possibilità non sia mai stata così
importante come oggi».
Oltre alla teoria servono
ovviamente strumenti per garantire denaro ai media. «Oggi non
possiamo più pensare di sopravvivere solo attraverso la pubblicità.
Ci vogliono entrate diverse: dagli abbonamenti ai contenuti
sponsorizzati fino alla creazione di non profit in grado di fare
giornalismo senza per forza cercare un profitto», dice Matt Carroll,
professore di giornalismo alla Northeastern University School of
Journalism di Boston. Tra il 2009 e il 2011 le non profit che si
occupano di informazione hanno ricevuto 527 milioni di dollari
soprattutto da quattro fondazioni: Carnegie, Knight, Ford,
Rockefeller.
Ma ci sono anche proposte
più spregiudicate. In un articolo apparso sulla Columbia Journalism
Review, l’esperto di media Steven Waldman sostiene che un modo per
rilanciare il settore sia quello di creare un AmeriCorps per il
giornalismo, un ente federale che distribuisca i fondi di
associazioni filantropiche e così cercare di ricostruire una rete di
startup dell’informazione diffusa su tutto il territorio. Per Bob
Schieffer, veterano di Cbs, è importante agire subito per proteggere
la democrazia. «Se qualche ente non arriverà e farà quello che i
giornali locali hanno fatto in questi anni, avremo la corruzione a un
livello mai visto finora».
Pagina 99, 26 novembre
2016
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