Che c’entrano i pesci con il
disamore? Eppure presto (ancora non conoscevo l’italiano e parlavo
siciliano) inciampai tra pesci e amori, allorché a tavola qualcuno
gemette: «Com’è disamuratu stu piscispada». Poi, nel tempo, mi
impantanai e fui risucchiata in un gorgo di parole – sorellette
maggiori e sorellette minori, complici e dispettose, che si rubano i
belletti, si scambiano gli abiti, si scambiano i ruoli, e vengono
confuse -.
Forse, però, il salto dalla cucina al
letto non è poi tanto lungo, se è vero (com’è vero) che come un
amante anche un pesce, cotto e portato in tavola, all’assaggio può
risultare disamorato: perché non è fresco, ha fatto i vermi, è
cucinato male, ha il condimento sbagliato. Qualunque sia la ragione,
resta il fatto che quel pesce toglie al goloso commensale il piacere
di mangiare pesci.
Il pesce è disamorato e il commensale
a sua volta si disamora e di quel pesce (spigola o scorfano) non ne
vorrà più assaggiare, perché l’ha tradito, l’ha deluso, l’ha
disaffezionato: sa di poco e niente, ha il mercurio nella pancia, non
ha il sapore che lo dichiara scorfano o spigola. Che se ne fa
l’appassionato commensale di un pesce così, di un pesce morto? Non
lo può manco ammazzare, e però rischia d’essere infettato,
intossicato.
Qualcuno sostiene che l’amore è un
condimento, e per dosaggi sbagliati si trasforma in disamore. Basta
un’aggiunta di acido glutammico perché da dolce diventi amaro,
invece d’essere esaltato.
E questo avviene nell’accezione
affettiva e lettaiola di disamore, quando il vecchio ossìmoro («odi
et amo») perde una gamba, si disarticola e traballa: sciancato si
regge sull’odio.
Se disamorare non significa disamare,
fermo restando che disamore è il contrario di amore, non è che il
commensale prima era innamorato e poi ha tolto al pesce il suo amore.
Il fatto vero è che il pesce è in sé disamorato (è nel pesce,
cioè, l’essenza del disamore, come avviene in tante creature),
perché non ha amore né sostanza.
Ora, perché si stabilisca concordia (e
non discordia) tra il commensale e il pesce, occorre che il pesce
torni alla sua natura di pesce, così come le creature infettate da
disamore devono ritrovare la propria qualità di creature.
Nessuna relazione, infatti, è
possibile tra due persone, due mondi, se uno dei due si chiude nel
recinto con i bestioni del disamore.
Quando fuoriesce dalla sfera amorosa,
disamore non è più l’amore che si nega all’altro, l’amore da
cui l’altro è allontanato, ma è mancanza d’amore, mancanza di
attenzione, di interesse. Cioè: incapacità di riconoscere l’altro
da noi, per paura e egoismo, per avarizia e narcisismo, – e ha come
corollario la negazione dell’altro e delle sue ragioni, fino alla
cancellazione del nome. Disamore è rifiuto della condivisione,
mancanza d’affetto, anaffettività, avversione o aperta ostilità.
Aggressione. Crudeltà. Spesso mascherata e spacciata per purezza di
idealità. Disamore è anche la morte, perché è il contrario della
vita.
Siamo nel recinto, e non ne usciamo.
Manifestiamo contro le stragi, contro
la tortura, contro la schiavitù, e poi accechiamo il vicino di
porta, foraggiamo i profittatori che con gli unghioni ci strappano la
pelle, diamo una mano agli schiavisti, comprando corpi e merci. E non
c’è scandalo. Buttiamo i bambini nella spazzatura, nella
lavatrice, nella ghiacciaia, nei bordelli. E non c’è scandalo.
Appallottoliamo diritto e leggi – carta da cesso. Però ci
commoviamo, siamo generosi, facciamo le collette. Madamini di san
Vincenzo truccati carezziamo mostri e stragisti. Le vittime ce le
scordiamo: sono loro i colpevoli. Quando si dice il diritto e il
rovescio! Profumatamente pagati coccoliamo usurpatori e violentatori
rivoltando sacchi di merda.
Abbiamo il cervello bacato. Smangiato
dal tarlo del ribasso. E niente vale niente. Non ci sono doni, le
polpette sono tutte avvelenate. Neghiamo l’acqua e la parola vera.
Ci resta la resistenza all’oltraggio e alla violenza. Fino a
quando? E intanto distruggiamo la terra e progettiamo di rendere
abitabile e colonizzare Marte. Malati e deliranti. Tutti.
Ma dove non c’è pena non c’è
colpa, e torneranno le Erinni a chiedere vendetta per avere
giustizia.
Come rinserrare nei recinti i bestioni
del disamore? Come placare il demone bellicoso che ci appesta?
E poi che ce ne facciamo di tutti i
disamorati del mondo, mortiferi egoisti narcisisti? li ammazziamo? li
curiamo? Su quale ghiacciaio del globo li depositiamo? a nord o a
sud? con provvista di scatolame, o senza?
Come uscire dal recinto del disamore?
prima che tutti si armino e si mettano al balcone per tirare al
piccione sui passanti, prima che tutti si armino di badili e corrano
ai cimiteri a devastare le tombe, a giocare con gli ossi di morto.
Forse è vero: è il cimitero la casa
del disamore.
«Il Caffè illustrato», n. 24,
maggio-giugno 2005
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