"Era difficile
gestire il suo corpo e la sua mente. Il Manga era parlato da se
stesso, una macchina linguistica divampante. Ed era un uomo emiliano
". Dopo tanti anni Viola Papetti rompe il silenzio sulla sua
storia privata con Giorgio Manganelli. Per la prima volta rende
pubbliche le formidabili lettere d'amore che lui le scrisse dal 1966
al 1973, insieme alle missive altrettanto belle che lei più tardi
avrebbe indirizzato a Maria Corti, impegnata a raccogliere tutte le
tracce dello scrittore.
Un inedito carteggio in
forma indiretta che restituisce un legame sentimentale durato per
tutta la vita, splendido e terribile (Lettere senza risposte ,
Nottetempo). Minuta, occhi ridenti, un'antica abitudine all'ironia
come riparo dalla crudeltà del mondo. Viola è un'anglista di
valore, una vita trascorsa sulle pagine di Hopkins e Sterne. E tra le
braccia sfuggenti di uno dei più grandi affabulatori del Novecento
(di cui ha curato gli scritti di anglistica).
Lei ritrae un
Manganelli davvero inedito: molto carnale, erotico, passionale.
"Sì, in molti si
stupivano del suo dongiovannismo, soprattutto le tante donne che lui
prendeva e lasciava. Non l'hanno capito. Prevaleva l'immagine
dell'orco solitario e un po' fiabesco, mentre il Manga era pur sempre
un emiliano. La sua anima era una cosa diversa, spesso preda di
tremende angosce".
Andò in analisi con
Thomas Bernhard. Gliene parlava?
"Mai. Però
ascoltavo le sue telefonate. Da Bernhard aveva appreso una tecnica
psichica affinata che gli consentiva una lettura profonda di sé e
degli altri. Coglieva il fuoco delle persone, così come da critico
coglieva il nucleo mitico degli autori. E alle donne regalava dei
ritratti meravigliosi".
Un grande seduttore.
"Unico. Sapeva
suggerire con rara eleganza fantasie erotiche potenti. Era un maestro
nell'infiammare un corpo opaco. Io aderivo alle sue suggestioni senza
riserve".
Un rapporto anche
doloroso.
"Sì, ma mai vile.
Non c'erano sentimentalismi, solo passioni estreme. Giorgio diceva
che avevamo due relazioni. La prima di amore, e le sue lettere lo
dimostrano. La seconda di "necessità mentale", per lui e
anche per me. Era sempre nella mia testa, anche quando ci lasciavamo.
Lasciarsi era normale, come ritrovarsi. E i ritorni erano belli".
Quando cominciò la
vostra storia?
"Ci eravamo
incontrati nei primi anni Sessanta. Io poco più che trentenne, lui
dieci anni di più. Prese a corteggiarmi ma io gli sfuggivo. Avevo
paura delle relazioni stabili e amavo i miei libri. Ero strana, e lui
paragonava la mia femminilità a un 'guanto spaiato'".
E questo naturalmente
lo attraeva.
"Sovrapponeva la sua
anomalia alla mia. Ci siamo dati la libertà per tutta la vita, una
condizione che ci ha permesso di reggere fino alla fine".
Esisteva però una
compagna ufficiale.
"Una madre
autoritaria, anzi una matrigna che gli avrebbe fatto il torto
peggiore: quella tomba a due piazze a Prima Porta. Il Manga poteva
essere solo amante, mai marito o compagno di vita. Ma non voglio
parlare della Ebe: potrebbe riaffiorare il mio rancore, e non mi
piace".
Ma Ebe la chiamò
quando lo scrittore morì.
"Sì, io mi
precipitai subito a casa del Manga. Lei mi diede cinque minuti, poi
via. Lui giaceva sul letto con il braccio rivolto a quella statua
orribile che non aveva mai voluto spostare dal letto: un angelo
gotico con la spada. Ma come si fa a fare l'amore sotto un angelo
così brutto? Gliel'avevo detto tante volte, ma lui niente".
Lei aveva trascorso
con Manganelli anche l'ultima domenica.
"Ero stata da lui
nel pomeriggio e nella notte sarebbe morto. Dormivo a casa mia quando
quella stessa notte sentii uno squillo, mi precipitai con l'impulso
irrefrenabile con cui da sempre rispondevo alle sue telefonate. Manga
era capace di sfuriate terribili se non sentiva subito la mia voce.
Quella volta dall'altro capo del filo solo silenzio. Mi ha lasciato
così, con un annuncio pudico e tremendo di quello che abbiamo sempre
temuto: l'abbandono. Per evitarlo abbiamo pagato prezzi altissimi".
Soprattutto lei.
Manganelli la rendeva complice di altre storie amorose.
"Mi parlava delle
altre donne, spesso in modo grottesco. Il suo innamoramento cadeva
quando le sentiva lagnarsi del loro avvenire. Penso che mi avesse
collocato in una zona speciale: quella della non esistenza, e me
l'aveva ripetuto più volte. E nella mia non esistenza mi sono
pigramente adagiata. Non esistendo, ero al sicuro".
Lo ritrae come un
bambino pericoloso.
"Non dava certezze
su niente, ma per sé le chiedeva con abili sotterfugi. Mi sono perso
nel bosco, mi diceva, sono solo e al buio: e tu cosa fai per me? Io
reagivo in modo infantile e lui ridacchiava. La sua nudità
psicologica si rivelava di colpo. Una volta temetti - e me ne
vergogno - che mi volesse ammazzare. Eravamo al lago, da soli.
Seduto sul letto, lui mi guardava e piangeva dalla tenerezza. Poi mi
diceva: sai, gli assassini sono creature dolcissime. Pensai: beh, ci
siamo".
Lei ha capito da cosa
nasceva la sua straordinaria affabulazione?
"Era eccessivo in
tutto: nella memoria prodigiosa, nelle letture sterminate, nella
sessualità, anche nel mangiare. E nella sofferenza. La Kristeva mi
ha fatto riflettere sul rapporto tra la parola e la figura materna e
credo che la madre del Manga sia stata il suo "sole nero".
Lui se ne lamentava sempre, dicendo che l'aveva calpestato".
Usava le parole anche
per ferire?
"No, sempre grande
rispetto. Semmai mi puniva con il silenzio. Ammutoliva per giorni.
Non dava spiegazioni né le chiedeva".
Che cosa ha
rappresentato Viola per Manganelli?
"Credo la
giovinezza. Se te ne vai tu, se ne va la mia giovinezza, mi disse una
volta. E io non volevo che invecchiasse".
E Manganelli per lei?
"Un compagno di
giochi a cui devo molto".
“la Repubblica”, 12
febbraio 2015
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