Articolo vecchio (un anno
e più). Forse i problemi qui denunciati sono stati felicemente
risolti, ma l'applicazione della 194 risulta tuttora problematica in
molte regioni. (S.L.L.)
La decisione è presa: C.
non vuole tenere il bambino. In Italia la legge 194 del 1978 le
assicurerà consulenza, esami medici, aborto. Sulla carta. Perché
quello che la aspetta, nell’Italia del 2015, è un percorso a
ostacoli, fatto di burocrazia, medici obiettori e strutture blindate.
Code infinite, mentre il tempo pressa. Eppure anche quest’anno si è
brindato alla riduzione delle interruzioni di gravidanza, scese per
la prima volta sotto le 100 mila. Ma qualcosa non torna. Gli aborti
calano, ma sono sempre meno le strutture che li fanno. Così abortire
diventa uno slalom crudele, nel quale perde chi ha meno informazioni,
sostegno, reddito. O vive nella regione sbagliata.
Presa la decisione, la
prima cosa che serve è un certificato per l’interruzione di
gravidanza. C. fa il test e l’ecografia e va dal medico di
famiglia. Che le risponde: «Mi dispiace, sono obiettore di
coscienza». Non le resta che rivolgersi a un consultorio. In
Lombardia, dove vive, non se ne vedono tanti: solo uno ogni mille
donne. La media in Italia è di 1,5, distribuiti a macchia di
leopardo: la concentrazione più alta in Valle d’Aosta, con quasi
otto strutture per mille donne; la più bassa in Molise, dove si
arriva allo 0,6. La legge non indica un numero minimo. Tutto è
lasciato in mano alle regioni. E il risultato è che, di fatto, la
194 in molte strutture non viene applicata.
Dopo il no del suo
medico, C. si rivolge allora a un consultorio di Milano. Telefona a
uno in centro, non lontano dal Duomo. «Possiamo fissare un
appuntamento non prima di una settimana», dice la segretaria. Dopo
sette giorni si presenta. Fa prima il colloquio con una psicologa,
poi le visite mediche. In un’ora e mezza è fuori con il
certificato in mano. Ora deve “solo” cercare l’ospedale dove
abortire. I consultori più virtuosi, confinati tra Piemonte, Liguria
ed Emilia Romagna, prenotano direttamente l’intervento. Ma non è
questo il caso.
La legge 194 prevede
sette giorni di riflessione dopo il rilascio del certificato. Ma di
giorni, prima che C. arrivi all’aborto, ne passeranno molti di più.
«Ti presenti che sei di sei-sette settimane, ma non fai l’intervento
prima delle dieci settimane», dice Mario Puiatti, presidente
dell’Associazione italiana per l’educazione demografica. «In
questa attesa per la donna aumenta non solo il rischio medico, ma
anche quello psicologico». Lo dicono tutti gli studi scientifici:
prima si pratica l’aborto, più diminuisce il pericolo di
complicazioni.
In Italia non è così.
Si entra in un labirinto di certificati e colloqui, mentre l’orologio
continua a ticchettare. E il ricorso agli aborti d’urgenza, per
evitare lo sforamento del tempo massimo dei 90 giorni o delle sette
settimane per l’aborto con la pillola Ru486, aumenta di anno in
anno.
La procedura prevede due
tappe: il prericovero e l’intervento. Ma il prericovero, nella
maggior parte dei casi, non si può prenotare. Bisogna presentarsi
all’ora e nel giorno stabilito dall’ospedale. «Meglio arrivare
prima», dice la centralinista del Niguarda di Milano, «prendiamo
solo le prime dieci». Dopo poco più di un’ora, la colonnina
elettronica del blocco Sud ha già distribuito i primi dieci
bigliettini bianchi con la scritta “prericovero Ivg”. Stesso
discorso al San Camillo di Roma: «Non si può prenotare, deve
presentarsi alle 7, prendiamo solo le prime dieci». Se sei
l’undicesima, ritenti un altro giorno. Magari arrivando alle 4-5
del mattino, come consigliano le infermiere. A mettersi in fila ci
sono soprattutto donne giovani, tra i 20 e i 35 anni. Oltre una su
tre (34%) è straniera: una percentuale molto superiore a quella
della presenza delle immigrate sul totale della popolazione, che
accentua la vulnerabilità sociale del fenomeno. E diverse sono anche
le caratteristiche delle straniere che abortiscono, rispetto alle
italiane: in più della metà dei casi sono sposate e non hanno un
lavoro stabile, mentre tra le italiane che abortiscono ci sono più
occupate e nubili.
Una volta superata la
prima fase, si può fissare l’appuntamento per l’intervento. La
regola è questa: passano prima le donne più avanti con la
gravidanza. Nel 62% dei casi si aspettano meno di 14 giorni, ma quasi
un quarto delle donne attende fino a tre settimane. Dipende tutto
dalla regione, dall’ospedale e dal numero di non obiettori
presenti. Che spesso si contano sulle dita di una sola mano. Al
Niguarda di Milano sono solo due. Al Policlinico Umberto I di Roma ce
n’è solo uno. Al San Paolo di Napoli si sale a tre.
Ma ci sono anche
strutture dove lavorano solo medici che hanno scelto l’obiezione di
coscienza. Tra i ginecologi, il 70% si dichiara obiettore. Con
regioni, come il Molise e la provincia autonoma di Bolzano, dove più
di nove ginecologi su dieci non praticano l’aborto.
Risultato: soltanto il
60% degli ospedali con un reparto di ostetricia e ginecologia
garantisce il ricorso all’aborto. L’altro 40% non lo fa, cioè
non applica la legge. Come sapere se quello più vicino a casa è uno
di questi? Un database con gli ospedali che non fanno l’interruzione
di gravidanza non esiste. Devi essere fortunata a trovare quello
giusto. «No, qua non la facciamo, deve chiedere al San Camillo o al
Sant’Eugenio», rispondono con naturalezza dal reparto di
ginecologia del policlinico Tor Vergata. Anche in un altro
policlinico universitario della capitale, il Sant’Andrea,
l’interruzione volontaria di gravidanza non è praticata. E in
tutto il Lazio, sono dieci le strutture che non applicano la 194. In
Lombardia, le strutture obiettrici sono più di trenta. All’ospedale
di Gavardo (Brescia), per esempio, tutti e otto i ginecologi presenti
non sono disposti a praticare l’aborto.
Per risolvere il problema
gli ospedali possono ricorrere ai “medici a gettone”. Ma con i
tagli alla sanità ormai si fa sempre meno. «E quando i non
obiettori di un ospedale vanno in pensione, spesso il servizio viene
sospeso», dice Silvana Agatone, presidente della Laiga, Libera
associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge
194/78. «È successo a Jesi, ma anche a Napoli».
Il risultato, spiega
Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil Medici, è che «per
abortire le donne sono ancora costrette a migrare anche da una
regione all’altra». Nel 2013, in tutta Italia, i ginecologi non
obiettori erano meno di 1.500. «Questi numeri bassi sono anche
frutto della condizione di svantaggio professionale che questa
decisione comporta, soprattutto per i più giovani», dice Cozza.
L’età media dei non obiettori, non a caso, è superiore ai 50
anni.
Così come diminuiscono i
non obiettori, gli ultimi dati dicono che nel 2014 anche gli aborti
sono diminuiti del 5,1% rispetto al 2013. Il tasso di abortività è
di 7,2 per mille donne tra 15 e 49 anni, in calo del 5,9% rispetto al
2013 e tra i più bassi d’Europa. Si può pensare che le campagne
di informazione per la prevenzione abbiano funzionato. Ma a guardare
i dati, il 42% delle under 25 italiane non usa ancora nessun metodo
contraccettivo durante il primo rapporto sessuale. Un’altra
spiegazione potrebbe essere la diminuzione del tasso di fecondità,
sceso nel 2014 all’1,39 figli per donna. Siamo quindi una
popolazione che fa pochi figli, usa pochi contraccettivi, e ricorre
pochissimo agli aborti. Anche qui, qualcosa non torna. «La domanda
che dobbiamo porci è: l’offerta dei nostri ospedali corrisponde
alla domanda di aborti?», dice Silvana Agatone. Non a caso, il tasso
di abortività è più alto nelle regioni con i servizi migliori
(Emilia Romagna, Liguria, Piemonte), e più basso nelle regioni che
hanno più obiettori e liste d’attesa più lunghe (Calabria,
Trentino, Veneto).
Il dubbio che corre tra
gli operatori e gli esperti è che, davanti a tante difficoltà,
stiano aumentando gli aborti clandestini. Secondo la ministra della
Salute Beatrice Lorenzin, i numeri sul clandestino sono stabili. Ma i
calcoli sono stati fatti in una ricerca condotta nel 2012 con modelli
matematici elaborati prima del 2005, cioè prima dell’introduzione
delle pillole abortive. «I modelli matematici applicati», spiega
Anna Pompili, ginecologa di Amica, Associazione medici italiani
contraccezione e aborto, «oggi sono inadeguati a comprendere il
fenomeno perché non tengono in considerazione una nuova modalità di
aborto sempre più frequente: il farmacologico fai da te. Il panorama
è cambiato, noi usiamo gli stessi modelli e diciamo che nulla è
cambiato?», si chiede Anna Pompili. Mirella Parachini, ginecologa al
San Filippo Neri di Roma, racconta di una scomparsa inquietante,
quella delle donne nigeriane e cinesi. Dove sono finite? «A un certo
punto sono scomparse», conferma Anna Pompili. «Sono diminuite le
fasce sociali più deboli, ma parallelamente non abbiamo notizie di
aumenti evidenti nella contraccezione».
L’aborto sommerso di
oggi è molto diverso da quello del passato. «Se prima ci si
affidava a qualcuno che inseriva dei ferri nell’utero», dice Anna
Pompili, «oggi si compra una pillola». Come il Cytotec, un farmaco
contro l’ulcera controindicato in gravidanza perché «aumenta il
tono e le contrazioni uterine che possono causare l’espulsione
parziale o totale del feto». D’altro canto basta fare qualche giro
su Google per poter scegliere il miglior “kit per abortire”, o
fare un giro alla stazione Centrale di Milano o alla stazione Termini
di Roma per procurarsene un po’. Certo non sempre va bene. E molte
donne finiscono al pronto soccorso dopo aver assunto questi farmaci,
denunciando un aborto spontaneo.
«Qua nell’ultimo anno
è successo due volte», raccontano le ostetriche dell’ambulatorio
di medicina solidale di Tor Bella Monaca. «Due giovani nigeriane si
sono presentate con forti dolori e sanguinamento intenso e, davanti
alle nostre domande, hanno raccontato di aver preso pillole per
abortire fornite da amiche».
Chi vuole abortire oggi
in Italia «deve essere ben determinata a farlo», conferma la
ginecologa Anna Uglietti, a lungo responsabile dell’ambulatorio 194
della clinica Mangiagalli di Milano. «È un percorso a ostacoli,
spesso ti senti dire di no e sei costretta a vagare tra consultori e
ospedali». Ma la situazione «sarebbe già diversa ricorrendo di più
all’aborto farmacologico. È una procedura più snella e meno
aggressiva, per la donna e per il medico», dice Uglietti. «Il
farmaco è somministrato dall’infermiere, il medico non obiettore
deve prescriverlo e fornire assistenza. Si riuscirebbe così a
garantire un servizio più efficace e più sicuro». Lo raccomanda
anche l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma da noi resta
assai poco accessibile. (ha collaborato Federica Delogu)
“pagina99we”,
28 novembre 2015
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