Se la poesia è
scrittura, esistono poeti che riescono a fare della voce un'arma
supplementare. Fra gli italiani, Amelia Rosselli, e certo assieme a
lei Jolanda Insana, spentasi ieri a Roma dove viveva dal 1968.
Era nata a Messina quasi
ottant'anni fa. Laureata in filologia greca, insegnò nei licei,
collaborando a quotidiani e riviste. Esordì tardi, nel 1977, ma nel
2002 vinse il Viareggio con La stortura (Garzanti), e già nel
2007 lo stesso editore pubblicò l'intera sua opera. Tradusse autori
contemporanei, ma soprattutto classici. Le versioni della "sua"
Saffo, e ancora di Plauto, Alceo, Lucrezio o Marziale restano fra le
più poeticamente memorabili dopo quelle di Quasimodo. D'altronde
amava dire: «Chi non ha mai tradotto, scagli la prima pietra».
Già dal debutto,
l'italiano si univa al dialetto siciliano in una lega di rara
violenza, le cui ondate di calore espressivo, ha notato Andrea
Cortellessa, segnano Fendenti fonici (1982) e Il collettame
(1985). Qui la sua "ruvida e dura scorza" si apriva allo
strazio del canto — allo spasimo, verrebbe da dire, citando il
conterraneo Vincenzo Consolo. Al centro del lavoro stavano corpo,
amore, malattia, ma senza dimenticare, spiegava Emanuele Trevi,
un'anima sui generis, la quale, priva di luce, assomigliava piuttosto
ai grevi umori organici descritti dai medici medievali: «Dove sei
dove sei / anima mia sfiorami / non vedo / anima mia chiavicona
sconciata», e ancora, per dissipare ogni dubbio, «sconsacrata
scorreggia».
Ricordiamola così,
questa grande poetessa, come un nuovo Jacopone, tanto sarcastico e
laico, quanto vulnerabile.
La Repubblica, 29 ottobre
2016
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