Era entrato in fabbrica
dalle sue parti, nel ferrarese, quando aveva appena quattordici anni;
ed era poi sbarcato a Milano nel 1896 un po' più grandicello, per
andare a lavorare alla Marelli. Questa dura esperienza di
"bambino-operaio" e la tenace ostinazione con cui, da buon
autodidatta, riuscì a prendersi un diploma alle scuole serali per
diventare un insegnante ai corsi tecnico-professionali, segnarono
profondamente l'identità e gli ideali politici di Bruno Buozzi.
Scriverà Fernando Santi:
"Nella schiera degli organizzatori sindacali di prima del
fascismo, Buozzi è indubbiamente quello che più di ogni altro
rappresenta l'operaio italiano dei primi del secolo: l'operaio
metallurgico, intelligente, umano, orgoglioso della sua dignità
professionale, che sta a testa alta davanti al padrone, rispettato e
rispettoso; che legge L'origine delle specie e frequenta
l'Università popolare e i loggioni della stagione lirica; che ammira
la tecnica tedesca e odia il kaiser; che ama i nichilisti russi e
vota per Turati".
Il nome di Buozzi si
identifica con i primi sviluppi del sindacalismo industriale nell'età
giolittiana, con il rafforzamento delle Camere del lavoro e la
nascita delle federazioni di mestiere. Uno di questi sodalizi, quello
dei lavoratori metallurgici, la Fiom, che egli guidò per diciassette
anni (dal 1909 al 1926), si affermò fin da allora come l'avanguardia
del movimento operaio italiano. Le più importanti conquiste
sindacali di quel periodo - dal contratto collettivo all'istituzione
delle commissioni interne, all' orario di lavoro di otto ore - recano
la sua firma. Segretario generale della Confederazione generale del
lavoro dal gennaio 1926, durante l'estrema resistenza contro il
fascismo, attivo animatore degli esuli parigini, compagno di lotta
dei repubblicani spagnoli, Buozzi finì assassinato alla Storta dai
tedeschi in ritirata, il 4 giugno 1944 (il giorno stesso della
liberazione di Roma), dopo aver conosciuto il confino politico
nell'ultimo scorcio della dittatura mussoliniana e la famigerata
prigione nazista di via Tasso.
Sulla vicenda umana e
politica di quest'uomo, che per il suo grande coraggio, la sua
coerenza intellettuale e la sua assoluta dedizione alla causa del
proletariato, ha rappresentato una delle figure più esemplari del
socialismo italiano, è comparsa ora una rievocazione biografica La
forza tranquilla, Franco Angeli, che ripercorre l' itinerario di
Buozzi sulla scorta di parecchi documenti inediti e di varie
testimonianze. L'autore, Aldo Forbice, giornalista e saggista
politico, si chiede quale sarebbe potuta essere nel secondo
dopoguerra la strategia del sindacalismo italiano se la vita di
Buozzi (che sembrava destinato, quale artefice del "Patto di
Roma", a dirigere la Cgl unitaria) non fosse stata stroncata
improvvisamente in seguito a una serie di circostanze inquietanti che
non sono mai state del tutto chiarite.
In effetti Buozzi, che
univa alle sue doti di organizzatore sindacale d'istinto e pragmatico
una formazione politica e culturale sorretta da profonde convinzioni
riformiste, aveva intuito fin dalle sue prime esperienze che compito
fondamentale del sindacato fosse di creare anche in Italia le
condizioni per lo sviluppo di una moderna democrazia industriale.
Perciò egli continuò a sostenere, in tutte le sedi, sia il
principio della piena autonomia del sindacato, senza alcuna
subordinazione ai partiti, sia l'esigenza di un'azione sindacale che
avrebbe dovuto eleggere come suoi obiettivi principali la crescita
dell'occupazione, la valorizzazione della professionalità, la
partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori alla gestione
aziendale e alle trasformazioni tecnologiche.
Sulla base di questi
intendimenti Buozzi fu avversario tanto del sindacalismo
rivoluzionario quanto del massimalismo. Ma neppure durante le più
dure polemiche che costellarono anche il periodo dell'esilio, egli
perse di vista il principio dell'unità sindacale dei lavoratori. Nel
1921 aveva tentato di esorcizzare i contrasti insorti all'interno
della classe operaia dopo la scissione comunista di Livorno, temendo
giustamente che essi avrebbero favorito l'avanzata del fascismo; fu
poi lui, nel 1936, a ricucire con Di Vittorio un programma comune di
lotta contro il regime; e successivamente, dopo il 25 luglio 1943
(quando alcuni lo avrebbero voluto a capo di un governo antifascista
di unità nazionale), a gettare le basi di un'intesa anche con i
cattolici per la ricostruzione di un sindacalismo libero e
democratico.
“la Repubblica”,1
marzo 1985
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