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Il ricatto del debito
come volano
dello sfruttamento sul lavoro
In una raccolta di saggi
di Le Goff, intitolata O la Borsa o la vita (Laterza, 2003)
veniva riportato un manoscritto del XIII secolo in cui si affermava:
«Gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal
denaro, un cavallo dal cavallo o un mulo da un mulo. Inoltre, essi
sono dei ladri poiché vendono il tempo che non gli appartiene e
vendere un bene altrui è un furto. E dal momento che non vendono
null’altro che l’attesa di denaro, cioè il tempo, essi vendono i
giorni e le notti» (p. 34). Come nota Lazzarato in proposito (La
fabbrica dell'uomo indebitato, Derive Approdi): «Mentre nel
Medioevo il tempo apparteneva a Dio, oggi in quanto possibile,
creazione, scelta decisione, è il principale oggetto
dell’espropriazione/appropriazione capitalistica».
Come fatto rilevare da
Amato e Fantacci, nel libro La fine della finanza (Laterza,
2009) l’origine del termine «finanza» deriva dalla parola latina
«finantia», ovvero «conclusione amichevole di una controversia»,
da «finire», terminare, concludere, o da «finis», fine,
conclusione e anche confine, limite. Tale etimologia sta a indicare
che lo scambio finanziario, pur non essendo immediatamente solvibile
nel presente (come qualunque scambio di merce, ovvero scambio
simultaneo di quantità contro valore - prezzo) ma sottoscrivendo un
contratto duraturo nel tempo, è comunque caratterizzata da un
termine temporale oltre il quale la transazione si esaurisce e viene
risolta in modo consensuale. Con l’avvento del capitalismo, la
finanza si è sempre più allontanata dal suo motivo d’essere o
almeno da come era stata pensata originariamente, ma si è sempre più
trasformata, strutturalmente, in
speculazione finanziaria, ovvero debito senza limite. Anzi, i debiti
stessi sono diventati oggetto di scambio finanziario.
L’attività
finanziaria esiste dunque solo laddove si genera un debito. E
l’esistenza di un debito implica che vi sia necessariamente un
rapporto di asimmetria e di gerarchia di potere: il debitore è
sempre subalterno e dipendente dal creditore. In un sistema
capitalistico, non c’è accumulazione se non c’è preliminarmente
un processo di indebitamento. Da questo punto di vista, essendo lo
Stato uno delle fonti principali di indebitamento funzionale alla
produzione di ricchezza, la costituzionalizzazione del pareggio di
bilancio appare da un punto di vista economico una vera idiozia.
Il
sistema capitalistico nasce e si sviluppa sulla base della continua
ridefinizione del rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro.
Sono le imprese che si indebitano inizialmente con il sistema
creditizio-finanziario e per far fronte a tale obbligo seguono
solitamente due strade: la prima è quella classica, immanente
alla stessa natura del capitalismo: estrarre plusvalore dalla
capacità lavorativa umana, relegando il lavoro a merce
(forza-lavoro) e variando continuamente le forme del lavoro
produttivo (di plusvalore). La seconda consiste nel socializzare il
debito necessario all’accumulazione al di fuori della stessa forma
impresa. L’evoluzione delle strutture di proprietà, dalle SpA alle
holding finanziarie non è altro che l’esito di questo processo. La
finanziarizzazione degli ultimi 30 anni ha fatto sì che il debito
necessario per l’accumulazione capitalistica non sia più
concentrato solo nelle imprese, ma si sia sempre più esteso, ieri,
ai bilanci nazionali, oggi, alle famiglie. Tale processo ha coinciso
con una mutazione della condizione sociale, che ha fatto perno sulle
ideologie liberiste dell’individualismo proprietario (l’uomo
impresa) e contemporaneamente sul senso di colpa e del dovere del
debitore. Non è un caso che in tedesco debito significhi anche
«colpa» (schulde), mentre nelle lingue neolatine rimandi
all’idea «obbligo, costrizione, dovere» (dal latino: debére).
In questo contesto, la
dipendenza dal debito diventa un formidabile strumento di controllo
sociale, che va oltre la semplice sfera economica per innervare tutto
l’insieme dei comportamenti sociali. E in particolare diventa,
soprattutto, forma del disciplinamento del lavoro, sia a livello
collettivo che individuale-soggettivo. Non è un caso che, nel nome
del risanamento del debito, si intraprendono misure economiche volte
a smantellare ulteriormente il welfare, incidere negativamente sulla
sicurezza economia e sociale e ultimare il processo di
precarizzazione, guarda caso, del mercato del lavoro. La riforma del
mercato del lavoro apparentemente non ha a che fare con i bilanci
pubblici, ma, in Italia, come in Spagna, in Grecia e in tutti i paesi
sottoposti alla pressione speculativa sul debito pubblico, diventa un
grimaldello fondamentale per definire la nuova disciplina del lavoro
nel contesto della produzione immateriale e cognitiva. In secondo
luogo, a livello individuale e soggettivo, la dipendenza dal debito
acuisce quelle forme di ricattabilità e subalternità che incidono
pesantemente sulla libertà d’azione e di scelta degli individui,
incrementano il senso di paura e di subalternità culturale e
sociale.
In altre parole, il
ricatto del debito (collettivo o individuale che sia) agisce come
volano dello sfruttamento sul lavoro esattamente come il ricatto del
reddito e del bisogno ha sempre segnato la subalternità del lavoro
al capitale. Come scriveva Marx, la Rivoluzione Francese ha reso
libero il lavoro, ma non ha liberato i lavoratori, in quanto
costretti a vendere la propria forza per poter sopravvivere.
Nel biocapitalismo
cognitivo contemporaneo, la disciplina del lavoro non è più svolta
solo dalla tempistica della macchina e dei tempi (che si traduce nel
furto dei tempi di vita), ovvero non è più regolata da una
tecnostruttura, come lo era nel contesto predominante della
produzione materiale manageriale e che è stata, non a caso, il
centro della sovversione operaia negli anni ’60 e ’70.Se oggi la
valorizzazione capitalistica tende a basarsi sempre più
sull’utilizzo del corpo e delle facoltà umane, è evidente che
necessitano nuovi meccanismi di controllo per tener conto della
soggettività e della cooperazione sociale che oggi è la fonte
principale di quella ricchezza che viene espropriata a diversi
livelli. Il debito e la precarietà del reddito sono oggi due facce
della stessa medaglia: definiscono quel dispositivo di
auto-disciplina che viene introiettato a livello individuale,
funzionale all’assoggettamento dei corpi e dei cervelli. Gli
effetti sul corpo sociale sono pesanti e pervasivi e vengono
accentuati dalla crisi economica. In primo luogo, si acuisce la
frammentazione sociale a vantaggio di quell’individualismo
comportamentale condito da mutua indifferenza che rappresenta proprio
il primo obiettivo della disciplina del debito e della precarietà.
In secondo luogo, si mantiene elevato quello «stato di eccezione»,
che, divenuto norma, instaura condizioni di emergenza permanenti, in
grado di far imporre profondi stravolgimenti non solo sul piano
economico e sociale ma anche sul piano delle libertà e della
partecipazione democratica. In terzo luogo, cresce la paura, il più
potente e antico strumento di soggezione: ma si tratta non tanto
della paura della punizione, ma piuttosto della minaccia di una
potenziale punizione. L’accanimento quasi maniacale sull’art. 18
svolge più la funzione di disciplinamento e minaccia potenziale
piuttosto che di effettivo pericolo, dal momento che esistono già
parecchi dispositivi che consentono di poter licenziare senza
problemi e senza eccessivi costi per le imprese.
Ogni dispositivo
disciplinare, tuttavia, crea potenzialmente anche i propri antidoti e
anticorpi. Il primo potrebbe essere il diritto al reddito di base
individuale e incondizionato. Il secondo è il diritto all’insolvenza
delle famiglie, inteso come diritto individuale e collettivo (diritto
al default). Con ciò, intendiamo anche una sorta di moratoria per i
debiti delle famiglie in un contesto in cui i redditi diventano
sempre più precari. Così come il diritto al reddito è un diritto
della persona ma nello stesso strumento di ricomposizione sociale che
va oltre la singola persona, così vale per il diritto
all’insolvenza. Se il diritto al reddito incondizionato significa
riconoscimento della proprio essere produttivo anche solo
semplicemente vivendo, il diritto all’insolvenza significa
riappropriazione diretta di reddito, ponendo le esigenze di
produzione e riproduzione sociale prima di qualsiasi altra esigenza
compatibile con la logica dello sfruttamento capitalista della
cooperazione sociale.
Si tratta in ultima
istanza della riappropriazione del proprio debito e del proprio tempo
contro il furto della nostra vita che ogni giorno viene reiterato.
Perché la vita e il tempo non sarà di Dio, come si pensava nel
Medioevo, ma non è neanche del capitale: è solo nostra.
“Alias il manifesto”,
31 marzo 2012
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