LONDRA
Era una mattina nebbiosa
e sopra i tetti delle case gravitava un velo che pareva rispecchiare
la superficie fangosa delle vie». John Watson, ufficiale medico di
Sua Maestà rientrato da poco dall'Afghanistan con una fastidiosa
ferita di guerra, descrive con puntiglio la Londra che sta
attraversando di corsa diretto a Brixton, risucchiato dal caso de Il
Segno dei quattro, il suo avventuroso esordio al fianco di
Sherlock Holmes. Siamo all'inizio del marzo 1881, la primavera è
vicina, eppure la capitale è sospesa in un clima vaporoso e
inclemente, nel magico tempo vittoriano che alimenta le fantasie di
chi ama i libri. Il sipario s'alza nel teatro di mille crimini e
delle imprese del primo grande detective privato della storia della
letteratura gialla.
A Londra le grandi nebbie
non ci sono da anni, da quando il Clean Air Act ha sconfitto il
pesante inquinamento da carbone. La metropoli ha smarrito un pezzo di
anima in nome della modernizzazione che da sempre la cambia e la
rinnova. Sebbene possa vantare «la piccola mania di conoscere
esattamente Londra», Holmes si troverebbe spaesato in parecchi
angoli della capitale, anche se resistono numerose le tracce della
stagione in cui lo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle ha modellato
il suo investigatore, rendendolo parte vivente della prima città che
non dormiva mai. Gli anni sono passati, la storia è diventata
leggenda. E viceversa.
Quello che gli
appassionati chiamano «il Canone», i 56 racconti e quattro romanzi
sherlockiani scritti da Watson e firmati da Doyle, s'inizia in un
punto preciso quanto misterioso. «Ho messo gli occhi su un
appartamento in Baker Street», annuncia Holmes al buon dottore una
mattina del gennaio 1881, il 6 per convenzione. I due si sono appena
conosciuti all'ospedale Saint Bart, su segnalazione di un conoscente
che Watson ha visto al Criterion di Piccadilly. Cercano casa, hanno
poche sterline. Si studiano e si danno un appuntamento «per vedere i
locali al n.221 B». «Due comode camere da letto» dall'arredamento
«festoso». Il prezzo, «diviso, è conveniente». Affare fatto. I
due si trasferiscono la sera stessa. Diventeranno inseparabili senza
mai smettere di darsi del lei.
L'indirizzo è
un'invenzione. All'epoca della regina Vittoria, Baker Street era
divisa in più segmenti, non arrivava al 221 B. Oggi, all'equivalente
moderno del civico, c'è il museo dedicato a Holmes, maniacale
ricostruzione delle stanze della coppia, a partire dai diciassette
scalini che portano allo studio. Per i fan è «canonico», il
migliore dei complimenti. C'è il coltello che pugnala la posta sulla
mensola del camino, c'è la pantofola persiana col tabacco. Mancano
il fumo acre della «pipa di terra nera» e l'odore dello zolfo. Il
numero della casa è oggetto di dibattito da anni. Si pensa agli
attuali 59, 61 o 63. Per sciogliere il dilemma non basterebbe Holmes
in persona.
Intorno si esprime un
gran business di cappa e pipa, bar, negozi, e il caro Sherlock Holmes
Hotel. Le emozioni sono sotto terra, nei corridoi della
metropolitana, tappezzati con la silhouette holmesiana nei colori
delle quattro linee che l'attraversano. Sulla piattaforma della
Jubilee ci sono sette illustrazioni ispirate alle storie di Watson.
Belle davvero. Il Tube porta lontano. A Montague Street si trovano
gli alloggi che il giovane laureando Holmes scelse nel quartiere di
Bloomsbury, terra di Virginia Woolf. C'è consenso, e non prove, che
abitasse al 26: Doyle, guarda caso, abitò per diversi mesi al 23 di
Montague Place nel 1891. Il British Museum è un passo, era l'hard
disk di Sherlock, che si smarriva nei libri, quando non staffilava i
cadaveri al Saint Bart, elaborando teorie criminali. Nell'ospedale,
in Smithfield Square, una targa ricorda il primo incontro fra i due
amici.
Di qui ci si spinge verso
l'East End, il cuore dell'altra Londra di Sherlock Holmes, i teatri,
i giornali, la stazione di Charing Cross. Lo Strand comincia ad
Aldwych, dove c'è il Lyceum, un teatro neoclassico, all'angolo con
Wellington Street, ricostruito nel 1904. Fu davanti «alla terza
colonna da sinistra» che Mary Morstan, con Holmes e Watson,
s'abboccò il 7 luglio 1888 l'uomo che l'avrebbe guidati oltre il
Tamigi nell'«oasi d'arte» di Thaddeus Sholto all'inizio de Il
segno dei quattro. Mary, in seguito, avrebbe sposato il dottore
di Baker Street.
Wellington Street è il
prolungamento di Bow Street, dove (L'uomo dal labbro storto)
aveva sede un'importante stazione di polizia londinese usata da
Holmes. Non lontano, c'è «il nostro ristorante sullo Strand»,
Simpson's, che è ancora lì. Ci andavano quando non erano a teatro,
Saint James Hall di Piccadilly o Covent Garden Theatre (ribattezzata
Royal Opera House) dove nel gennaio 1896 la coppia ascoltò un
concerto di musiche di Wagner. Erano buongustai, amavano la cucina
italiana del Goldini's di Gloucester Road, a Kensington. Da Simpson's
un salto e si è a Charing Cross, dove Holmes fu aggredito nella
primavera 1894 (La casa vuota).
Dietro la stazione,
qualche traccia del bagno turco di Craven passage (Il cliente
illustre) frequentato dalla coppia il 3 settembre 1902. Li anche
il Northumberland Hotel in cui alloggiò Sir Henry Baskerville al suo
arrivo a Londra e prima di incontrare a Dartmoor il mastino che in
realtà era un bracco. Ora accoglie lo Sherlock Holmes Pub e la più
antica ricostruzione della stanza principale del 221 B, realizzata
nel 1951. È meno patinata di quella del Museo, ma l'incanto è
maggiore.
Dall'adiacente Trafalgar
square si apre Pall Mall. Nei forzieri della banca all'angolo con
Waterloo Place, «in qualche sotterraneo della Cox &Co., c'è una
scatoletta da viaggio rigurgitante di carte, e quasi tutte sono
registrazioni di curiosi problemi che Holmes ebbe occasione di
esaminare in varie epoche». È il tesoro del biografo sherlockiano,
il Graal delle avventure perdute che gli holmesiani cercano da
sempre, quello che svelerebbe la verità nascoste sul Signor SH.
Potrebbe dire cosa è successo nell'inedito caso del Grande topo
di Sumatra. Oppure da dove spunta l'Elementare Watson!, la
famosa frase che il nostro non hai mai pronunciato. Circostanze che,
se spiegata, richiederebbero parecchie altre storia.
La Stampa, 5 agosto 2010
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