Massimo D'Azeglio |
"Non ho più
notizie, nè di te, nè del signor Checco Tozzi", scriveva
nell'ottobre del 1856 Alessandro Manzoni a suo genero Massimo
d'Azeglio. "Le prime, le spero ottime; le seconde, mi piacciono
qualunque siano".
La lettera - raccolta nel
terzo volume dell'Epistolario edito da Mondadori - non
presenta molti motivi di curiosità. È una classica, breve richiesta
di raccomandazione: Manzoni ne indirizzava più d'una a d'Azeglio,
che era stato presidente del Consiglio del regno sardo-piemontese e
che ancora contava, in politica, a Torino. Nella chiusa del biglietto
spicca però quel nome insolito, Checco Tozzi, cui l'anziano
scrittore sembra rivolgere un acuto interesse, tanto da dolersi di
non saperne più nulla. Di chi si tratta? Sul fatto che Tozzi - o
meglio "il sor Tozzi", abitante in Marino, cittadina
situata sui Castelli alle porte di Roma - sia esistito davvero, si
può nutrire qualche dubbio, nonostante le continue profferte di
"verità" e di realismo che Massimo d'Azeglio inserisce nei
suoi scritti autobiografici. Si tratta comunque di un nome che - come
Manzoni aveva intuito - sarebbe ingiusto non figurasse nella schiera,
d'altronde abbastanza ristretta, delle figure salienti della
narrativa italiana dell'Ottocento. Una figura certamente minore, o -
se si vuole - minima, ma a suo modo poliedrica.
D'Azeglio la inventò - o
la riprodusse dal vero? - in una serie di articoli composti nel 1856
per il settimanale torinese “Il Cronista”, poi ripresi e
ampiamente rimaneggiati nei Miei ricordi, sei o sette anni più
tardi. Ora a quel personaggio azegliano viene dedicato un intero
volume (Massimo d'Azeglio, Il sor Checco Tozzi, racconti
romani, Guida, pagg. 119, lire 8.500), che ne ripropone le gesta in
maniera integrale, senza i ripensamenti e le varianti che l'autore -
uno dei padri della patria per il Piemonte in procinto di diventare
Italia - ritenne opportuno apportarvi nella sua autobiografia
complessiva.
D' Azeglio - è noto -
nutriva per Roma e dintorni un amore che era in gran parte di natura
artistica. Lo seducevano i suoi paesaggi, e non soltanto quelli
urbani, d'impronta classica, rinascimentale, barocca, ma anche e
soprattutto scorci di campagna e desolate valli bucoliche: quel
"deserto" che, sulla metà del secolo scorso, ancora
circondava la città. Per cogliere quest'ultima preferenza, basta
seguire la descrizione, che egli fa, d'un viaggio, compiuto in un
"legnetto a due cavalli", da Roma a Marino, la cittadina
nella quale trascorre molti mesi fra il 1823 e il 1826, ospite nella
casa-pensione gestita appunto dal possidente Checco Tozzi, lavoratore
(o appaltatore) nelle cave di travertino. Sono quattordici miglia "a
mezza costa del monte Albano" e ad attraversarli "non si
vede un albero nè un' abitazione": "tutta pianura
leggermente ondulata, sulla quale scorre libero lo sguardo per molte
miglia, sino ai lontani monti; qua e là sorgono soltanto rovine e
antiche tombe, ovvero lunghissimi acquedotti, di quei tanti che
portavano fiumi d' acqua a dissetare gli antichi padroni del mondo".
Quei mesi trascorsi da giovane, scorazzando, "solo, libero, in
mezzo alle macchie del Lazio", influenzarono non soltanto la
"maniera" di dipingere di d'Azeglio: a Roma, allievo del
pittore fiammingo Martin Verstappen, risentì indirettamente della
lezione di un paesaggista-principe come Hackert. Ma, ciò che più
conta, quel soggiorno - preceduto da altri più brevi a partire dal
1814, quando egli aveva sedici anni - lo indusse a maturare su Roma e
sull'"Italia media e meridionale" idee e propositi che non
avrebbe più abbandonato e che, dato l'uomo, le sue successive
funzioni e il suo prestigio, avrebbero esercitato un qualche
influsso, sia didascalico che politico, su quelli che d'Azeglio
medesimo definitiva "gli Italiani piccini", di là da
venire.
Le immagini visive che si
raccolgono intorno ai Castelli, fra Marino, Grottaferrata, Rocca di
Papa e Castelgandolfo, e il panorama umano che si accentra intorno a
Checco Tozzi e alla sua casa, diventano in fondo un blocco unico
nella memoria azegliana: rappresentano, ai suoi occhi di piemontese,
il Sud. Come già per lo Stendhal delle cronache italiane ambientate
nel Rinascimento, per l' autore dell'Ettore Fieramosca la
materia figurale offertagli da "questa" Italia è un
impasto di energia anarcoide e di simpatica indolenza, di crudeltà e
di gentilezza d' animo, di ribalderia e di spirito (o meglio di
"esprit", alla francese), dote quest'ultima che fa difetto
alla sua regione d'origine, il Piemonte. D'Azeglio ha sufficiente
finezza per riconoscerlo: "Si suole, o si soleva dire: "L'esprit
a tuè la France". Vogliamo credere che gran parte
dell'Italia sia morta della stessa malattia? Però questa
supposizione mi piace poco, a me che son nato in un paese che grazie
a Dio non è morto, e non vorrei che argomentando a contrariis
si venisse a credere d'aver trovato il motivo perché è vivo".
In pieno secolo
diciannovesimo, per farla breve, l'Italia simboleggiata da Roma e
dintorni sembra a d'Azeglio ferma al Cinquecento, ed egli è sempre
in attesa di assistere a qualcuna delle scene descritte da Benvenuto
Cellini nella sua Vita avventurosa e tracotante. Non soltanto
gli anni Venti del secolo scorso erano "l'età d' oro dei
briganti"; ma anche per i cittadini comuni il coltello e lo
schioppo costituivano normali ingredienti di vestiario, così come in
Piemonte (nota lo scrittore) l'ombrello. Fatti di sangue nascevano
dai motivi più futili, ad opera di "matti gloriosi" dotati
di temerità, di prepotenza e di una rusticana inclinazione al "beau
geste". Ma i quadretti di d' Azeglio (e in ciò l'
accostamento a Giuseppe Gioachino Belli o a Bartolomeo Pinelli è
inevitabile) non mostrano soltanto scene di violenza. C'è tutto un
contorno piacevole, blandamente aneddotico, "casereccio",
che rende gustoso, specie a una lettura rapida, il suo reportage.
A parte il protagonista -
usato in un certo senso come "buttafuori" - Checco Tozzi,
una specie di don Gesualdo dei Castelli, self-made-man di paese,
"prudente come il serpente se non semplice come la colomba",
sono molte le vignette disegnate con sapiente candore. C'è il
vecchio sor Baldassarre, cocchiere, anzi "maestro di stalla",
dell'ambasciatore di Spagna a Roma, depositario di tutti i segreti
necessari per "studiare il secolo XVIII visto dal sottinsù",
cioè dai selciati e dalle scuderie della Città Eterna. Si trovano
nobili "svitati" e agenti di polizia (quella polizia "che
prospera in Italia, tutta orecchie e quasi senz'occhi"), poeti
estemporanei e contadini mansueti ma soggetti a improvvisi accessi di
violenza "privata".
Ci sono anche figure di
donne: la moglie, la cognata del sor Checco, sottomesse a un
maschilismo inevitabile e perfino derisorio; la sua giovane figlia,
un rustico monumento all'indolenza, "una patata sotto forma
umana"; il marito di costei, tale Virginio, che aveva messo a
frutto quel ricco matrimonio "essendo sua passion dominante
veder stabilito su inconcusse basi il grande affare della sua
nutrizione senza obbligo d'alzarsi troppo presto la mattina".
Accensioni di humour come quest'ultima ci ricordano la
polemica che d'Azeglio conduceva contro la maniera di scrivere in uso
in Italia, "uno dei paesi dove più abbondano i facili, i bei
parlatori e dove più abbondano al tempo stesso gli scrittori
illeggibili".
Ci sarebbe da obiettare
che lo stesso d'Azeglio ha dato al suo paese, col romanzo Niccolò
de' Lapi, uno dei libri più noiosi dell'Ottocento europeo. Ma
egli probabilmente taglierebbe corto, dicendo che lo fece per amor di
patria. Il patriottismo, in quanto senso della consanguinità
italiana, è invece latitante in questo Sor Checco Tozzi. C'è più
ammirazione che stima, più divertimento che consenso, quasi che, nel
parlare di Roma e del suo contado, in d'Azeglio l'estetica avesse
decisamente divorziato dalla morale e dalla politica. E qui l'
accostamento a Stendhal - a parte la diversa qualità letteraria dei
testi - è più preciso che mai. Nello scrittore francese, quanto più
lo si vede affannato a glorificare le avventure e le congiure degli
italiani nei secoli bui e ad osannare la qualità della "pianta-uomo"
che cresce nella penisola, tanto più s'intravede lo sbigottimento al
solo pensiero che gente simile venisse, per paradosso, chiamata a
popolare (non diciamo a governare) la Francia. In questo, il
subalpino d'Azeglio non sembra da meno del francese; e si ricordi
che, fra i padri del Risorgimento, egli - l'apologetico descrittore,
sulle tele e nei libri, dell'"urbe" nel tardo periodo
papalino - fu uno dei più aspri avversari "preventivi"
(sarebbe morto nel 1866) di Roma capitale.
Le sue obiezioni -
espresse fin dal 1861 in un opuscolo dal titolo Questioni urgenti,
in polemica con Cavour - erano dominate da un forte moralismo
"storico": come si legge nei Miei ricordi, per lui
l'antica Roma aveva incarnato "la glorificazione della forza ai
danni del diritto" e "Roma papale" aveva abusato
"della pazienza del mondo". Che senso ha, si chiedeva in
sostanza d' Azeglio, farne il centro di una nazione libera e moderna?
"Tutte le grandezze di Roma", egli sosteneva, "costarono
prezzi di infelicità e di dolore agli uomini". E concludeva con
un monito: "Impariamo dunque a non lasciarci abbagliare
dall'ingegno, dalla gloria, da falsi splendori. Lodiamo e ammiriamo
chi rende gli uomini felici. Condanniamo sempre e teniamo in
dispregio chi invece li fa miseri e sventurati".
“la Repubblica”, 22
settembre 1984
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