12.8.17

Ellington. Il Duca del ventesimo secolo (Helmut Failoni)

Duke Ellington (1899 - 1974)
Pare che sin da piccolo si muovesse in modo un po’ snob ed aristocratico. D’altronde chiamarsi Edward Kennedy all’inizio del secolo doveva essere un po’ impegnativo per un bambino di colore, nato, esattamente cent’anni fa (29 aprile 1899), da genitori che avevano conosciuto la schiavitù. Un bambino che molti anni dopo, in occasione del suo settantesimo compleanno per l’esattezza, sarebbe stato ospitato ed omaggiato dal presidente Nixon fra quelle stesse mura della Casa Bianca, dove suo padre aveva saltuariamente lavorato facendo il maitre per arrotondare lo stipendio e che in un concerto milanese degli anni Sessanta, incurante del fatto che Herbert von Karajan fosse venuto apposta per ascoltarlo, si presentò sul palco a concerto già iniziato. Ma il Duca era il Duca. E quando, nei suoi periodi d’oro, con i gesti di un attore consumato, faceva partire Take thè A Traiti, la celebre sigla della sua orchestra, il pubblico gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Il via alle celebrazioni mondiali ufficiali per il centenario del Duca è stato dato il 21 gennaio con l’esecuzione della Black, Broum and Beige, alla Carnegie Hall di New York, ovvero nella stessa prestigiosa sala dove questa suite jazzistica debutto nel lontano 1943. Il 10 febbraio il Lincoln Center ha ospitato una serata dal titolo «Insights The Blues» ideata da Wynton Marsalis.e David Berger e che toccherà cento città. Non mancano convegni, seminari incontri, programmi televisivi e una maratona radiofonica che si terrà il 25 febbraio. La sua musica, nella quale le esigenze dell’intrattenimento hanno avuto un peso abbastanza rilevante, piaceva a politici, operai, studenti, bianchi, neri, portoricani: portava insomma il segno di un’arte nazionale. Il Duca sedeva sempre al pianoforte, ma il suo vero strumento, quello che seppe suonare come pochi altri, era l’orchestra, una macchina sonora fatta di impasti arditi, timbri lussureggianti, sintassi strutturali fuori dagli schemi, armonie timbriche, swing irresistibile, e che ha saputo raccontare con leggerezza le vicende del popolo nero. Il suo modello di orchestra a sezioni rimase insuperato per molto tempo, sino agli anni Cinquanta, con gli esperimenti di Gil Evans. Una delle grandi innovazioni ellingtoniane è stata quella di esaltare la scrittura nel rapporto tra composizione e improvvisazione, di applicare le grandi forme, quelle estese ed «accademiche» al linguaggio afroamericano, aprendo così il jazz ad un nuovo universo sonoro. E se adesso nessuno dubiterebbe del fatto che la figura di Ellington sia stata una delle massime della storia musicale afroamericana, fino agli anni Cinquanta c’era ancora chi tendeva ad escluderlo dalla storia del jazz, proprio a causa del suo utilizzo di forme di ampio respiro, di derivazione «colta», di quell’aspetto sinfonico, che cominciò ad insinuarsi nella sua musica a partire dal 1938, ed anche a causa del suo anti-bopperismo.
In Ellington c’è stata una sorprendente continuità dell’attività musicale, che, fra alti e bassi, durò quasi mezzo secolo: il suo periodo d’oro, quello di massimo splendore, fu quello che andò dagli anni Trenta sino alla metà degli anni Quaranta. Dopodiché, nonostante molti altri capolavori, cominciarono ad insorgere problemi di natura creativa, economica, e segni di una svogliatezza da parte dei musicisti, che erano costretti a tournée massacranti. Negli ultimi anni quella di Ellington divenne infatti una delle orchestre più indisciplinate della storia. Paul Gonsalves si addormentava seduto, Johnny Hodges era più scontroso che mai e c’era anche chi non si presentava proprio sul palco. Bruno Schiozzi in un suo appassionato ricordo delle giornate milanesi dell’orchestra, ricorda che il 30 gennaio 1966 «all’apertura della performance pomeridiana l’orchestra contava esattamente otto presenze sul palcoscenico: due batteristi (Skeeps Marsh e Elvin Jones), il leader, un bassista, tre ottoni e un’ancia. L’organico risultò completo soltanto nei due numeri conclusivi».


“alias – il manifesto”, 27 febbraio 1999

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