Duke Ellington (1899 - 1974) |
Pare che sin da piccolo
si muovesse in modo un po’ snob ed aristocratico. D’altronde
chiamarsi Edward Kennedy all’inizio del secolo doveva essere un po’
impegnativo per un bambino di colore, nato, esattamente cent’anni
fa (29 aprile 1899), da genitori che avevano conosciuto la schiavitù.
Un bambino che molti anni dopo, in occasione del suo settantesimo
compleanno per l’esattezza, sarebbe stato ospitato ed omaggiato dal
presidente Nixon fra quelle stesse mura della Casa Bianca, dove suo
padre aveva saltuariamente lavorato facendo il maitre per arrotondare
lo stipendio e che in un concerto milanese degli anni Sessanta,
incurante del fatto che Herbert von Karajan fosse venuto apposta per
ascoltarlo, si presentò sul palco a concerto già iniziato. Ma il
Duca era il Duca. E quando, nei suoi periodi d’oro, con i gesti di
un attore consumato, faceva partire Take thè A Traiti, la celebre
sigla della sua orchestra, il pubblico gli avrebbe perdonato
qualsiasi cosa. Il via alle celebrazioni mondiali ufficiali per il
centenario del Duca è stato dato il 21 gennaio con l’esecuzione
della Black, Broum and Beige, alla Carnegie Hall di New York,
ovvero nella stessa prestigiosa sala dove questa suite jazzistica
debutto nel lontano 1943. Il 10 febbraio il Lincoln Center ha
ospitato una serata dal titolo «Insights The Blues» ideata da
Wynton Marsalis.e David Berger e che toccherà cento città. Non
mancano convegni, seminari incontri, programmi televisivi e una
maratona radiofonica che si terrà il 25 febbraio. La sua musica,
nella quale le esigenze dell’intrattenimento hanno avuto un peso
abbastanza rilevante, piaceva a politici, operai, studenti, bianchi,
neri, portoricani: portava insomma il segno di un’arte nazionale.
Il Duca sedeva sempre al pianoforte, ma il suo vero strumento, quello
che seppe suonare come pochi altri, era l’orchestra, una macchina
sonora fatta di impasti arditi, timbri lussureggianti, sintassi
strutturali fuori dagli schemi, armonie timbriche, swing
irresistibile, e che ha saputo raccontare con leggerezza le vicende
del popolo nero. Il suo modello di orchestra a sezioni rimase
insuperato per molto tempo, sino agli anni Cinquanta, con gli
esperimenti di Gil Evans. Una delle grandi innovazioni ellingtoniane
è stata quella di esaltare la scrittura nel rapporto tra
composizione e improvvisazione, di applicare le grandi forme, quelle
estese ed «accademiche» al linguaggio afroamericano, aprendo così
il jazz ad un nuovo universo sonoro. E se adesso nessuno dubiterebbe
del fatto che la figura di Ellington sia stata una delle massime
della storia musicale afroamericana, fino agli anni Cinquanta c’era
ancora chi tendeva ad escluderlo dalla storia del jazz, proprio a
causa del suo utilizzo di forme di ampio respiro, di derivazione
«colta», di quell’aspetto sinfonico, che cominciò ad insinuarsi
nella sua musica a partire dal 1938, ed anche a causa del suo
anti-bopperismo.
In Ellington c’è stata
una sorprendente continuità dell’attività musicale, che, fra alti
e bassi, durò quasi mezzo secolo: il suo periodo d’oro, quello di
massimo splendore, fu quello che andò dagli anni Trenta sino alla
metà degli anni Quaranta. Dopodiché, nonostante molti altri
capolavori, cominciarono ad insorgere problemi di natura creativa,
economica, e segni di una svogliatezza da parte dei musicisti, che
erano costretti a tournée massacranti. Negli ultimi anni quella di
Ellington divenne infatti una delle orchestre più indisciplinate
della storia. Paul Gonsalves si addormentava seduto, Johnny Hodges
era più scontroso che mai e c’era anche chi non si presentava
proprio sul palco. Bruno Schiozzi in un suo appassionato ricordo
delle giornate milanesi dell’orchestra, ricorda che il 30 gennaio
1966 «all’apertura della performance pomeridiana l’orchestra
contava esattamente otto presenze sul palcoscenico: due batteristi
(Skeeps Marsh e Elvin Jones), il leader, un bassista, tre ottoni e
un’ancia. L’organico risultò completo soltanto nei due numeri
conclusivi».
“alias – il
manifesto”, 27 febbraio 1999
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