Il plebiscito occupa un
ruolo importante nella storia politica moderna, a partire prima di
tutto dalle costituzioni americane (dove venne usato per confermare
le carte con voto popolare) e poi, soprattutto, dalla Rivoluzione
francese, dove la forma plebiscitaria ha giocato ruoli diversi e
contraddittori. In questo libro interessante e utilissimo
(L’unanimità più uno. Plebisciti e potere, una storia europea
(secoli XVII-XX) , Mondadori) Enzo Fimiani ricostruisce la storia
comparata del plebiscito nei Paesi europei moderni in un lasso di
tempo di duecento anni, dal 1791 quando venne usato in Francia per
ratificare la Costituzione, fino al 1991 quando Boris Eltsin usa il
“grimaldello plebiscitario” per sancire la fine dell’URRS.
Coloro che nella Francia rivoluzionaria si espressero a favore
dell’appello al popolo posero il problema della legittimazione
popolare delle leggi in maniera diretta: la Costituzione, disse
Brissot, potrà essere “perfetta” solo quando il popolo l’avrà
ratificata.
In effetti il plebiscito
sembrò connettere al meglio popolo e Costituzione e si iscrisse in
un processo interessante di interpretazione della voce sovrana in un
tempo di attiva sperimentazione istituzionale, quando la monarchia
era ancora in campo, disposta di lì a poco a scendere in diretta
competizione con il popolo-re per la conquista del potere sovrano.
Pochi anni dopo, Napoleone avrebbe usato il plebiscito per soddisfare
le sue esigenze di “tribuno ambizioso” che cercava
nell’“entusiasmo irriflessivo” dei francesi il viatico supremo.
Comincia con lui la “dittatura per mezzo del plebiscito” che sarà
destinata a godere di larga e sinistra fortuna nell’Europa
continentale, fino a suggellare i regimi totalitari. Condizioni
democratiche e condizioni cesaristiche si sono dunque contese lo
scettro mediante il plebiscito. La svolta più dirompente verso la
dittatura consensuale si ebbe con Luigi Napoleone che, da Presidente
della seconda Repubblica ne decretò la fine con la forza del voto
popolare, usato per sottolineare il vincolo affettivo che lo univa
direttamente alla nazione. La domanda plebiscitaria che lo incoronò
era furbescamente privata del punto interrogativo: «Il popolo
francese vuole il mantenimento dell’autorità di Luigi Napoleone
Bonaparte, e gli delega i poteri necessari per stabilire una
Costituzione sulle basi proposte nella sua proclamazione del 2
dicembre 1851».
Dall’età
rivoluzionaria viene la consuetudine di assegnare all’appello al
popolo la sorgente della delega formale e totale non a governare
semplicemente, ma a scrivere una nuova Costituzione: dal Settecento
in poi, la conquista del potere, fosse per mano dei rappresentati
eletti per suffragio o di un capo che si auto-dichiarava
rappresentante ideale dell’unità del popolo, è associata alla
scrittura di norme. La politica costituzionale cercò la legittimità
per via di consenso dunque, che poteva essere una tantum (come
con il ’golpista’ Napoleone III) o il primo atto di una politica
basata sul consenso elettorale. Darsi al capo e dare vita a una
sovranità democratica sono opzioni contraddittorie che possono
partire dal seme plebiscitario, a dimostrazione di quanto ambiguo sia
il principio del consenso popolare.
Un esempio di questa
originaria ambiguità è anche nella storia italiana, la cui unità
nazionale sotto i Savoia avvenne anche attraverso i plebisciti (a
suffragio largo e anche universale maschile) per legittimare un nuovo
Stato i cui governi si sarebbero di lì in poi retti solo sul
consenso elettorale di una ristrettissima minoranza di aventi diritto
al voto. All’opposto sta l’esempio che ci viene dall’epilogo
della Resistenza: il referendum istituzionale che nel 1946 fonda la
Repubblica italiana darà vita ad un’Assemblea costituente che
scriverà la nuova Costituzione democratica che non interpellerà il
popolo alla fine dei lavori. Il grande potere che l’Assemblea si è
dato non introducendo l’obbligo del referendum confermativo
rifletteva la diffidenza dei costituenti nei confronti degli appelli
al popolo, usati con pompa propagandistica dal regime fascista.
Nel plebiscito si
manifesta una particolare predisposizione a semplificare il voto
popolare: non solo esso non è un’istituzione con cadenza regolare
ma mantiene un carattere di eccezionalità (non è identificabile
quindi con il referendum); è inoltre indifferente all’espressione
individuale del voto perché conta la massa. Infine, il suo successo
è fortemente associato alla partecipazione più che alla conta dei
voti: indire un plebiscito e vincerlo su una partecipazione esigua è
un segno di sconfitta. Ciò prova che nonostante la sua
identificazione tecnica con la democrazia diretta, il plebiscitario
vuole l’esaltazione dell’opinione e un consenso entusiasta, non
semplicemente una maggioranza di consensi. La sua norma è, come
recita il titolo del libro, “l’unanimità più uno”. Come tale
piace ai leader cesaristi e populisti, mentre incontra la diffidenza
dei democratici liberali.
“Il Sole 24 Ore –
domenica”, 11 giugno 2017
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