Sir John Barrow ,Primo Baronetto (1764 – 1848), alto funzionario di Stato e scrittore inglese
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«Sono pazzi questi
inglesi!», esclamava Asterix nell’album a fumetti ambientato
nell’Inghilterra di venti secoli fa; pazzi e fieri dei loro curiosi
costumi della loro insularità. La fierezza non è mai mancata ed è
quella che almeno in parte sta alla base della vittoria della Brexit.
In quanto alla pazzia, a volte c’è stata davvero, magari nascosta
dovi meno te l’aspetti. Ad esempio nella sede dell’Ammiragliato,
come racconta Fergus Fleming nel bel libro intitolato I ragazzi di
Barrow (Adelphi).
Barrow, a partire dal
1804 fu il secondo Segretario dell’Ammiragliato. Nelle carte
geografiche spiccavano ancora diverse zone bianche, a indicare le
terre inesplorate; e l’impegno fondamentale di Barrow per i
quarant’anni in cui restò in carica fu quello di promuovere le
spedizioni che consentissero di colorarle. Il materiale umano non
mancava. Alla fine delle guerre napoleoniche la Royal Navy aveva nei
suoi ranghi più di 6000 ufficiali, molti dei quali desiderosi di
fare carriera ad ogni costo. Anche a costo della vita: la loro e
quella dei loro uomini, lanciandosi spesso in imprese in cui il
coraggio e la passione per l’esplorazione non erano minori della
follia. Quelle imprese furono presentate allora e tramandate poi con
i toni dell’epopea, grazie a un’operazione retorica di
ingannevole esaltazione della gloria britannica non dissimile da
quella messa in atto dai fautori della Brexit. In realtà, spiega
Fleming, le missioni promosse da Barrow, che era animato dalla
convinzione assoluta che le sue fantasiose intuizioni fossero nel
giusto, erano spesso insensate, sia per i mezzi, sia per i metodi
usati.
La fine della spedizione guidata da John Franklin per la ricerca del passaggio a Nord-Ovest in un dipinto di fine Ottocento |
Barrow giurava
sull’esistenza di un passaggio a Nord-Ovest, una rotta
dall’Atlantico al Pacifico lungo le estreme coste settentrionali
canadesi. Quella diventò la sua ossessione. Forse nessuno, dice
Fleming, fece perdere così tanto denaro e vite umane per realizzare
un’impresa così grottescamente inutile. Il capitano Parry, a cui
il poeta Thomas Hood dedicò un’ode, guidò quattro spedizioni
nell’arco di otto anni; ma tornò a casa sano e salvo. Il capitano
Franklin e quasi tutti i suoi marinai non tornarono più. Dalla carte
in seguito ritrovate si direbbe che fosse giunto assai vicino al
punto da cui procedere verso il Pacifico. Ma per seguire
«l’intuizione» di Barrow proseguì nella direzione sbagliata.
Le successive missioni di
soccorso alla ricerca prima di lui e poi dei suoi resti costarono un
patrimonio e molte altre vite umane. Il risultato positivo fu che nei
dieci anni di quelle ricerche l’Artide «subì un assalto
cartografico forse decisivo»; ma della fine di Franklin nulla fu
scoperto.
L’altra ossessione di
Barrow era quella di mappare l’intero corso del Niger, che secondo
lui confluiva nel fiume Congo. Quindi promosse una prima spedizione
via acqua, che si concluse con la morte del suo responsabile, James
Tuckey, e di quasi tutti i suoi uomini, che erano riusciti a risalire
il Congo per 300 chilometri. Barrow rimaneggiò pesantemente in
chiave ottimistica il diario di Tuckey e promosse poi una folle
spedizione verso il Niger via terra, attraverso il Sahara. Ad
arrivare alla mitizzata Timbuctù fu più tardi un ufficiale
dell’Esercito, Gordon Laing, quasi impazzito a conclusione di un
viaggio «impossibile» per un europeo: scoprì che la città era
«una fetida distesa di casupole in fango e mattoni», protetta da
sei chilometri di mura, Fleming riporta una massa impressionante di
affermazioni insensate e crudeli di Barrow, che non aveva nessuna
considerazione per le sofferenze dei suoi esploratori; anzi, quasi le
considerava doverose. Al tempo stesso, però, riferisce accuratamente
le circostanze di quelle folli imprese, che, al di là delle
fantasticherie di Barrow, in effetti portarono a risultati
scientifici importanti. La sua ricostruzione, priva di retorica (e
forse proprio per questa ragione), ci dà comunque l’idea del
coraggio, della determinazione, dell’eroismo di quei «pazzi di
inglesi», animati da uno spirito intrepido che merita tutto il
nostro rispetto.
“La Stampa”, 20
novembre 2016
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