31.8.17

Settecento napoletano. L'ambiguo illuminismo di Re Carlo (Giuseppe Grilli)

Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia (1735 - 1754), poi re di Spagna
[…] Mi riferisco, ovviamente, alla grande, biennale, rilettura del re borbone che la cultura accademica (e non) napoletana ha di recente proposto su una restaurabile e ritrovata solidarietà dell’Europa mediterranea lungo la direttrice Parigi - Madrid - Napoli. Con la enorme, accumulativa esperienza della Civiltà del ’700 a Napoli (1734-1799), due volumi bellissimi, luccicanti e densissimi di catalogo (Firenze, 1980: «Centro Di») ricchi di contributi di Mario Praz, Raffaele Aiello, Ferdinando Bologna, Alvar González Palacios, Anthony Blunt e molti altri; con due convegni, uno inaugurale e uno, conclusivo, nell’aprile di quest’anno dedicato esplicitamente al rapporto tra i Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna; con le feste, le cene e le altre rappresentazioni di pubblico danaro, tra cui una nuova messa in scena settecentesca di Roberto De Simone (l’Opera buffa del venerdì santo), la città è sembrata ritrovare se stessa e la propria vocazione eterna. Ci si riferisce, naturalmente, a quella napoletanità aggressiva e boriosa, ma anche ingenua, che fissa un unico tratto tra Virgilio e Cangiullo e invoca intermediari Boccaccio e Marino.
Si tratta di un destino e di una vocazione ambigui, però. Il settecento borbonico esprime le sue utopie illuministe nelle grandi proposizioni enciclopediche della cultura centralista e dirigista della Parigi assolutista, ma si proietta a Madrid e a Napoli anche come distopia e orrore di qualsiasi diverso futuro. Impiantatisi in Spagna nel 1714 i Borbone due anni dopo trasformano con il decreto di Nuova Pianta il vecchio e ormai decrepito Grande Impero euroamericano in un fiammante e suppostamente modernissimo Regno di Spagna. La Corona di Aragona viene cancellata con un provvedimento amministrativo e, quando qualche decennio dopo gli spagnoli potranno tornare nell’Italia meridionale essendo stata ormai rotta la continuità di legittimazione, con un gesto di regale volontà si decide di dotare, con Carlo, il Regno meridionale di un monarca proprio e di un’idea di nazione che, secondo gli imperativi dell’ideologia borbonica, coincide strettamente con lo statalismo burocratico. È forse proprio questa la grande utopia del ’700 europeo. Non il razionalismo dei siti reali, le città artificiali e immaginarie, il tessere e il disfare continui e inconcludenti dell’intervenzionismo mercantilista e del laicismo politico, non il mecenatismo e le strabilianti scoperte archeologiche (di nuovo Pompei, Ercolano e le rovine antiche!), ma la capacità di costruire una grande metafora postbarocca del potere.
Quello settecentesco e borbonico fu infatti un sistema che seppe essere coerente con i propri princìpi e seppe illustrarli anche con azioni politiche decise come le espulsioni dei gesuiti che si susseguirono su tutto il «territorio» borbonico dell’Europa del XVIII secolo. Anche se oggi un gesuita smaliziato come Miquel Batilori non ha difficoltà a smascherare con garbo e smitizzare di fatto il coraggio del ministro di re Carlo ricordando tra le righe di una comunicazione congressuale che le scuole e le università sottratte alla Compagnia oscurantista e latifondista accumularono in pochissimi anni un tale deficit finanziario di gestione da imporre per pagare debiti indilazionabili l’alienazione dei beni di dotazione e la loro svendita ai soli acquirenti disponibili sul mercato: i padroni dei restanti latifondi, gli esecrati e temibili Baroni.
D’altra parte il potere e la società postbarocche eressero e coltivarono i propri miti ai margini e in presenza di autentici propositi razionalisti. Non furono più i miti dell’esclusione e del separatismo: l’onore e la razza con cui si coniugavano — nel teatro elisabettiano o nei drammi spagnoli del secolo d’oro — la partecipazione rassicurante alla cultura di un Grande Impero e il riflusso infamante dalla storia nel privato. (Se ne veda un esempio suggestivo e singolarmente rivelatore nella sua divergenza nella Risposta a Suor Filotea di Suor Juana Inés de la Cruz pubblicata dalle edizioni La Rosa a cura di Angelo Morino e Dacia Maraini, ove si dimostra come l’Impero escludeva sì il diverso da sé, ma garantiva comunque una voce di grandezza alla sua periferia, una doppia periferia: messicana e femminile!).
Certo, i miti del ’700 furono razionalisti, o si presentavano come tali, e polemicamente antibarocchi: come il mito centrale, quello ricordato da Antonio Elorza nel convegno napoletano citato sopra il mito, cioè, di quell’economia civile equilibrata in contrapposizione all’economia squilibrata della società degli stati (nobiltà, clero). Un mito che porta con sé la gloria di rifondare umanisticamente un’istanza etico-politica e l’infamia di scontare proprio nel sottosviluppo economico e sociale comune al sud dell’Italia e alla Spagna borboniche, il fondamento materiale del desiderio inappagato di razionalità e di progresso mancati.
Così della grande città illuminista da edificare attorno alla reggia di Caserta del magnifico re Carlo e del suo real architetto è rimasto da ammirare lo scenario moderno e abbandonato e già ci si chiede quale mai potrà essere la sorte della nuovissima metropoli postmoderna sorta sulle rovine antiche e le sopravvivenze moderne se ci si appresta, come pare, ad abbandonare al più presto anche quella.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1982

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