Giorgio De Chirico, Autoritratto con Savinio (1924) |
Quello del 1906 dovette
essere un inverno particolarmente freddo, per Giorgio e Alberto de
Chirico. Il padre, l'ingegnere Evaristo, se n'è andato l'anno prima
e ha lasciato i figli orfani a diciassette e quattordici anni. Il
defunto aveva accumulato una discreta fortuna costruendo una rete
ferroviaria in Tessaglia e alla famiglia dovette spettare una rendita
che durò per circa un decennio. Ad Atene, durante l'adolescenza,
entrambi avevano appreso i rudimenti di un'arte: Giorgio, la pittura,
al Politecnico; Alberto, il pianoforte, al conservatorio.
Dopoillutto, si pone il quesito di come continuare gli studi. Non ci
furono dubbi: «tutti ci consigliavano di recarci in Germania, a
Monaco», che «era allora un po' quello che ora è Parigi» (De
Chirico, Memorie, 1945). La madre Gemma Cervetto, personaggio
che non mancherà di segnare il percorso dei figli, dà però un
ultimatum: «Se fra due anni non sarete riusciti a far qualche cosa,
ritorneremo ad Atene» (Intervista al Corriere, 1907).
La Monaco che si apriva
davanti agli occhi dei Dioscuri era una città in pieno rigoglio,
economico e culturale. «C'era un benessere, una facilità di vita
che mi stupirono» (Memorie, '45). Calato il sipario sugli
eccessi di Ludwig II (1886), con il principe reggente Luitpold si era
aperta una fase di prosperità e ottimismo. Munchen leuchtete,
Monaco risplendeva - sosteneva Thomas Mann - con i suoi «giovanotti,
che fischiettano il motivo del Sigfrido», gli acquarellisti che
campano a giornata, i negozi di antiquariato e di fotografie, le
librerie d'arte, le ricche signore coi «capelli tizianeschi» (è
l'incipit della novella Gladius Dei, 1902). Quell'idea di
«nuova Atene», elaborata in epoca neolassica da Ludwig I e dal suo
architetto di corte, Leo von Klenze, aveva trovato organico
completamento nel corso dell'Ottocento. Lunghi viali da percorrere in
carrozza, con archi trionfali e padiglioni in vetro nei punti di
fuga, attorniati da palazzi o da ville neorinascimentali, giardini
pubblici e caffè «comodissimi», «ovunque un grande aspetto di
ordine e civiltà» (Memorie, '45).
Giorgio è subito ammesso
all'Accademia di Belle Arti, un palazzaccio luminoso e bardato di
fregi, clipei e colonne, con iscritti i nomi di illustri antenati:
dovette sembrargli a prima vista un arcano tempio del sapere. Ma, una
volta entrati, l'incantesimo sembrerebbe svanire. Nelle Memorie
del '45, scritte tutte però a scopo autocelebrativo, i compagni sono
ricordati come «pessimi»: «nemmeno uno che sapesse tenere un
carbone o un pen-nelloinmano». Per non parlare dei professori e
degli insegnamenti che impartivano: «La pittura che allora dominava
era la pittura della Secessione; quella pittura che in seguito creò
a Parigi lo stile Salon d'Automne e poi dilagò sul mondo creando la
pittura moderna. Tutti quei stili o generi che dir si voglia messi di
moda a Parigi dalla nefanda propaganda dei mercanti ebbero la loro
origine a Monaco». Il responsabile dello sfacelo sarebbe
sostanzialmente Franz von Stuck, cuore pulsante del movimento
secessionista fondato nel 1892, insegnante all'Accademia, ma
probabilmente in posizione minoritaria rispetto a un corpo docente
ancora tradizionalista. De Chirico, che non frequenterà i suoi
corsi, contrarrà una salda antipatia per questo pittore, che pure
eleggeva la Grecia più nera e orfica a musa personale: «Ecco Franz
von Stuck (^). Di questo Sartorio germanico vi è un Oreste
perseguitato dalle Furie che fa pensare a qualche reclame per
pneumatici Pirelli» (Galleria d'arte moderna, «Valori Plastici»,
1919).
I Tedeschi sono
medievali
Alberto intanto va a
lezione di armonia e contrappunto da Max Reger, pianista e
compositore di una certa fama, che viene soprannominato ‘il secondo
Bach'. Ci rimarrà per un «anno e più». Quel maestro
chegli«davailtema»chiudevaleg-germente gli occhi, mentre lui
improvvisava la fuga. «Ma che gusto (c'è a) improvvisare una fuga
davanti a un uomo che dorme, anche se questo uomo è il secondo
Bach?». Il bluff è presto svelato: «il sonno per Max Reger era una
leggerissima tendina dietro la quale egli si nascondeva per meglio
vigilare. Guai se nello svolgimento della fuga qualcosa non gli
andava a fagiolo. La palpebra scattava su l'occhio ircino». Forse il
sedicenne sta capendo anche meglio la civiltà in cui si trova. Dirà:
«I Tedeschi sono medievali». Almeno lui trova un maestro reale, e
impara una condizione di libertà e di scavo, più che un mestiere o
una regola. A Monaco, non vede i volti degli altri: «I passanti
andavano curvi, la testa ravvolta in una nube divapore» (sono le
belle pagine tarde di Savinio, Il mio professore, '51): questo
forse lo incuriosisce a sondarne i misteri. Poiché ilragazzo non
parla bene il tedesco, Giorgio lo accompagna dal pianista in veste di
traduttore. E, a casa di Reger, il pittore ricorderà un «grande
album contenente delle magistrali calcografie che riproducevano
quadri di Bocklin» (Memorie, '45) - è una folgorazione che
porterà a un fanatismo.
L'enfant prodige del
piano ha ancora la sfrontatezza degli anni d'oro, e quando Pietro
Mascagni passa da Monaco in tournée, corre a incontrarlo per
suonargli due atti di un'opera di sua invenzione: è la Carmela
(1907), purtroppo perduta, «un dramma tra pescatori dell'isola
d'Ischia». Il maestro è soddisfatto e Alberto corre a riferirlo
alla madre, che reagisce con sospetto: «se è vero, fattelo mettere
in carta». Così il giovane ne ricava una specie di pagella di mano
di Mascagni. La madre e Alberto si trasferiscono prima a Roma e poi a
Milano, nella speranza di ottenere qualcosa dal compositore di
Cavalleria rusticana o da Tito Ricordi. Ne verrà fuori niente
più di un'intervista dal titolo Il compositore quindicenne,
apparsa sul Corriere della Sera del 19 ottobre 1907, dove Alberto
dichiara poco però, perché presto, nel colloquio col giornalista,
si inserisce la madre. Si sentirà ancora a lungo il peso di questa
donna rude e invadente - fa fede una lettera del '18, di Cardarelli a
Carrà: «A me l'arrivismo di questi due De Chirico comincia un
pochino a puzzare. Poi c'è quella madre che è una specie di
Cornelia madre dei Gracchi preparata per una storia romana
dell'avvenire che faremo scrivere a Apollinaire sullo stile della
Mammella di Tiresia» (dal Pellegrino appassionato di Paola
Italia, per Sellerio, 2004).
Vita grigia e
noiosa
Giorgio rimane quindi da
solo a Monaco, «ancora per un anno», il 1907. Dirà di quel
periodo: «Vivevo una vita grigia e noiosa. Di giorno lavoravo
all'Accademia, la sera andavo al caffè a giocare a biliardo o a
scacchi» (Memorie, '45). Lo studio comporta lunghe sessioni
di disegno dal vero, altro metodo che in seguito contesterà:
«bisogna principiare al copiare figure riprodotte a stampa», prima
di dettagli del corpo umano, poi «copia delle statue», prima
drappeggiate e poi nude - è il fondamentale articolo sul Ritorno
al mestiere, «Valori Plastici», '19, ormai in pieno clima di
ritorno all'ordine. È un suo metodo, che probabilmente si forma sin
dagli anni di Monaco: «né basta andare a girare nei musei ed
estasiarsi davanti alle opere antiche; per imparare qualcosa dai
musei bisogna copiarci e copiarci» (Soffici a Firenze, «Il
Convegno», '20) perché «oggi maestri non ve ne sono» («Il
Primato», '20).
Lo studente di pittura si
sarà allora sentito a suo agio alla Neue Pinakothek, con quel suo
fregio esterno dipinto, con molta grazia, dal romantico Wilhelm von
Kaulbach (una bomba lo avrebbe distrutto): lì poteva individuare una
continuità alla quale riallacciarsi, a voler proprio schierarsi
contro lo Jugendstil. Un altro luogo di incanti sarà stato la
galleria Schack: per ospitare questa sontuosa collezione di pittori
tedeschi dell'Ottocento, formata da un diplomatico, era stata appena
costruita una nuova e decorosa palazzina guglielmina, lungo uno dei
viali più alla moda (1909, ancora oggi visitabile, con un
allestimento degno). Qui De Chirico poteva ammirare un Tritone e
Nereide di Bocklin (1873-'74), dove una ninfa che si crede
onnipotente afferra un boa, come farebbe un bambino col suo
giocattolo. È un dipinto che lo stordisce, tanto che lo riprenderà
alla lettera, caricando inevitabilmente la dose di lascivia (Tritone
e sirena, 1908-'09, collezione privata). Altri due dipinti di
argomento bockliniano si collocano nel periodo monacense, o poco
dopo: un Prometeo e una Sfinge (entrambi privati), dove i personaggi,
sovrastati da mari cupi e rupi ripide, sono quasi risucchiati nei
paesaggi funesti. Nel pieno di quest'attrazione, non poteva mancare
una visita a Basilea: una Lotta
dei centauri di Bocklin conservata nel locale Kunstmuseum
(1872-'73) sta alla radice diun'altra Lotta di centauri di de
Chirico (Roma, GNAM, 1909), che segna il culmine del culto giovanile
per il pittore delle isole dei morti.
Nel 1905, Bocklin - morto
quattro anni prima - era già stato ridimensionato dal grande critico
modernista Julius Meier-Graefe, per-ciò,quandonel'20deChiricodedi-ca
un articolo al pittore amato, gli appare giustamente come un eroe
tutto suo. Anche Soffici lo crede un ‘maestro mancato', c'è chi lo
taccia di ‘wagnerismo' e «i francesi lo accusano di non essere
stato abbastanza pittore».
Poussin, unico da
salvare
De Chirico si infervora:
«Bocklin è stato classico nel senso più puro della parola»;
«molto egli imparò dai primitivi toscani e dai grandi maestri del
Cinquecento», soprattutto da Durer e Holbein, ma anche da Poussin,
unico da salvare di tutto il Seicento, nelle improvvide selezioni di
Giorgio. Quello suo è un rapporto sostanzialmente proustiano, ma
attraversato da unamor-bosità che sfiora la cecità: «La prima
volta che vidi la riproduzione di un suo quadro, ero ancora un
bambino. Ne ebbi un'impressione chenondimenticaipiùeancheog-gi, con
tutta l'esperienza acquistata, benché abbia dimenticato più d'un
pittore da me ammirato negli anni andati, anche oggi, ogni volta che vedo un quadro di
Bocklin, risento quella gioia strana e quella felice commozione che
m'incoraggiano a far meglio; provo quel senso di felicità e di fede,
che solo sa darmi la grande pittura».
Come avrebbe potuto
seguirlo su questa strada il geniale fratellino? Sin da questo
momento, lui si consacra a un autodidattismo selvaggio e girovago - e
sognare maestri troppo lontani è forse più pericoloso che non
averne per niente. Per Savinio, che adotterà lo pseudonimo da
scrittore (dal '15) e poi da pittore (dal '24), la storia presto non
avrà più insegnamenti da impartire. Rimarrà un certo disagio nei
confronti dei ‘moderni', ma ci sarà spazio per posizioni del
genere: «Trae maggior nutrimento dal passato chi rompe risolutamente
con esso, come Picasso dalla pittura pompeiana, da Ingres» (Tommaso
Moro e l'Utopia, '45). Predisponeva quindi, il Dioscuro minore,
un terreno di memorie da collezionare e combinare a piacimento, di
cui indagare se si vuole la scaturigine, secondo i termini di una
libertà dilettantesca, sempre condotta dal principio del piacere.
Come ha chiarito Debenedetti, le sue costruzioni narrative implicano
un uso dell'intelligenza che può prescindere dall'ausilio della
mano. Anche l'opera figurativa, perciò, varrà essenzialmente come
«gioco segreto della felicità», e agli antipodi del feticcio
dechirichiano. Per tornare a una definizione di Sciascia, cui siamo
affezionatissimi: Savinio, come un Borges nostrano (Introduzione ai
primi Scritti dispersi per Bompiani, '89). Magari negli anni
di Monaco, in comune con il fratello, si consumava quell'attaccamento
bavarese al mistero greco, ma senza per questo soggiacere a una
martellante evocazione del fantasma bocklinano. Savinio riuscirà col
tempo a forgiare un suo balocco inquietante, come un relitto
incagliato a riva
dopo una tempesta, e a
volte improvvisamente lasciato a ondeggiare sul mare.
De Chirico invece, a
ventuno anni, si ricorda «stanco di Monaco e già in possesso di
possibilità pittoriche non comuni, torna in Italia ove trascorre
ancora un paio d'anni tra Firenze e Milano, senza però mai esporre,
senza mai immischiarsi in combriccole e cenacoli artistici, ma
lavorando e studiando continuamente» (Autobiografia, '19).
Insomma, ancora: il solito delirio apologetico, che consente poco di
vedere oltre. Proprio per quella mostra milanese del '19 sarebbe
arrivata la celebre stroncatura di Roberto Longhi, su Il Tempo, Al
dio ortopedico, dove la meccanica vuota dei manichini è smontata
senza appello. Per il grande storico dell'arte, veri italiani moderni
sono semmai Soffici e Carrà, che si erano formati con gli occhi
aperti su Cézan-ne e su Giotto, e più a fondo sarebbe andato nel
'37: «Il de Chirico, cresciuto in una tradizione per nulla italiana,
evocava la pittura antica in una mera scenografia nostalgica», «il
quattrocento diveniva il palcoscenico per l'opera dei pupi
metafisici, per i convitati di pietra» (Carlo Carrà). Ma neanche
per l'altro Dioscuro vi saranno parole tenere: «quell'avvelenatore
di pozzi culturali che si chiama Alberto Savi-nio» (nella
bellissima, per altri versi, Lettera a Giuliano - si tratta di
Briganti - del '44).
I giovani, sempre con
madre al seguito, si stanziano quindi a Firenze nel '10 e Alberto
intanto ha composto un Poema fantastico di soggetto
«approssimativamente mitologico». Tutto è pronto affinché alla
fine dell'anno al Teatro della Pergola si tenga un «unico grande
concerto orchestrale di Alberto de Chirico», solamente che gli
orchestrali sono «tremendamente imbranati» (lettera di de Chirico a
Gartz, 28-12-'10), perciò l'esecuzione viene trasferita a Monaco.
Nella stessa sala dove Mascagni aveva mandato in delirio il pubblico,
il 23 gennaio 1911, Alberto tiene la sua prima apparizione pubblica.
Prima dell'esecuzione, tiene un discorso in francese sulla sua
musica. I recensori tedeschi tuttavia sono abbastanza concordi: era
«incomprensibile» la lingua parlata dal ragazzo, poco chiare le sue
intenzioni, c'è chi si scaglia addirittura contro «la rovina e
l'impotenza di un idealista privo di un'istruzione sistematica ma
sicuramente non privo di talento», chi sospetta non si vada «oltre
gli effetti a buon mercato» (molta documentazione è tratta dal
notevole lavoro di Gerd Roos, Giorgio de Chirico e Alberto
Savinio. Ricordi e documenti. Monaco, Milano, Firenze 1906-1911,
Bora, 1999). Ma a Monaco, nel 1911, la critica ufficiale è impegnata
a serrare i ranghi contro la prima ondata di composizioni di
Schonberg, e Alberto probabilmente paga dazio.
Direttamente dalla
Baviera il ragazzo parte per Parigi mentre la madre ritorna, per
fortuna, a Firenze. Saranno sei mesi di gran libertà, per Alberto,
costellati da scoperte quali la Petruska di Stravinsky o le
scenografie di Diaghilev, poi arriverà anche Giorgio. Di Monaco
rimarrà il fantasma, e pare fondata quell'intuizione critica
(Schmied, Paolo Baldacci) che vede nelle architetture
klenziane della Konigsplatz i prototipi delle metafisiche Piazze
d'Italia: «Ferrara è sorella in odore a Monaco di Baviera. Entrambe
sanno di ceppo bruciato. Entrambe invitano al chiuso domestico, al
gemutiich della casa» (Savinio, Ascolto il tuo cuore, città).
È un paragone che echeggia anche nell'altro Dioscuro: «Monaco,
capitale della Baviera, in quanto a clima e umidità, è identica a
Ferrara» (De Chirico, Previati, «Il Convegno», '20).
“alias-domenica il
manifesto”, 9 agosto 2015
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