17.8.17

Parole ritrovate. Il movimento del 77, il ritorno della narrazione, un'intervista a Dacia Maraini.

Ponte Sisto Edizioni ha pubblicato pochi giorni fa l’ultimo libro di Igor Patruno, intitolato Le parole ritrovate. Il romanzo perduto dei ragazzi del 77.
La trama ha al centro la protesta radicale di quell'anno, alla quale Patruno partecipò in prima persona: le assemblee romane alla Facoltà di Lettere, gli Indiani Metropolitani e Autonomia Operaia, la contestazione a Lama, la morte di Francesco Lo Russo, la rivolta di Bologna, la repressione. Sullo sfondo il rovello di una vocazione alla scrittura e alla narrazione.
Pochissimo tempo, nel 1980 il quotidiano “Lotta Continua”, interpretando questa esigenza, pubblica, per la prima volta nella storia del giornale dell'estrema sinistra, una rubrica settimanale di interviste a scrittori italiani. Le interviste, ideate e realizzate da Igor Patruno, furono realizzate con la collaborazione di Massimo Barone e Antonio Veneziani, e affrontano il tema del “raccontare storie”, del rapporto tra personaggio e scrittore, del senso dello scrivere. La serie di interviste, dopo la fine del giornale “Lotta Continua” (era difficile sopravvivere alla fine dell'organizzazione politica), proseguì sul “Quotidiano dei Lavoratori”. Tra gli intervistati vi furono scrittori e poeti come Alberto Arbasino, Umberto Eco, Franco Cordelli, Alberto Moravia, Anna Mongiardo, Dacia Maraini, Renzo Paris, Aldo Rosselli e Dario Bellezza. Oggi queste interviste sono entrate nel libro di Patruno e sono più di un'appendice, giacché quel che conta in esse non sono solo le domande, ma anche le risposte. Quella che segue è l'intervista a Dacia Maraini, curata da Massimo Barone. (S.L.L.)


NON RIESCO A DARE RAGIONE A NESSUNO
Intervista a Dacia Maraini
a cura di Massimo Barone

Che rapporto hai con i tuoi personaggi?
Mi accorgo che un personaggio funziona quando va per i fatti suoi. Se il personaggio ha bisogno di essere continuamente sostenuto, modificato o corretto, se ci lavoro troppo, vuol dire che non funziona. Il personaggio deve agire da solo. In fondo, c’è sempre l’idea di rendere visibile una ideologia attraverso un personaggio ed è molto pericoloso farsi prendere la mano da questo.

Non necessariamente un romanziere è un narratore. Come ti poni di fronte al problema del raccontare?
Il romanzo degli ultimi venti anni ha negato la narrazione. Chissà perché lo abbiamo chiamato romanzo… Forse per la mole. Ma, in realtà, abbiamo avuto monologhi, frammenti, molto spesso poemi lirici in prosa. La narrazione è stata messa da parte. Si è negato il piacere del racconto… Per molti anni mi è successa una cosa strana. Quando mi sorprendevo a raccontare per il piacere di raccontare mi dicevo: ecco, c’è qualcosa che non va, qualcosa di vecchio. Sembrava che ogni forma di racconto fosse una forma di naturalismo. Il naturalismo, questa terribile parola! Ma la verità è che senza la gioia del racconto non c’è romanzo e questa gioia mi appartiene, l’ho provata fin dalle prime letture. Mi piace proprio, leggere delle storie, mi è sempre piaciuto. Anche in poesia mi è difficile scrivere versi in cui non ci sia uno spunto narrativo. Tuttavia, per molti anni, era sbagliato raccontare: il Gruppo 63 negava la narrazione e il ’68 negava perfino la scrittura.

Questo giudizio sul Gruppo 63, è condiviso da molti. Ma, secondo te, oltre a praticare una sorta di terrorismo culturale e a negare il piacere del racconto, il Gruppo 63 ha avuto qualche effetto positivo?
Sì, qualcosa… Per esempio ha indotto ad una maggiore riflessione sul linguaggio. E poi ha contribuito ad eliminare quel certo crepuscolarismo e quel sentimentalismo che sono parte della tradizione letteraria italiana. Però a guardare i risultati concreti prodotti, devo dire che gli effetti sono stati soprattutto negativi…

Elio Pagliarani era uno che raccontava. La ragazza Carla (Mondadori, 1964) è un libro di versi molto raccontato.
Sì. Lui è uno dei pochi del Gruppo 63 che ha conservato, almeno nelle sue prime cose, un certo piacere del racconto. Per tutti gli altri raccontare significava cadere nel naturalismo… Per cui si avevano strani romanzi fatti di illuminazioni, di frammenti… Siccome la vita è caotica, frammentaria, incomprensibile, anche l’arte doveva essere così. Ma, in fondo, questa è la forma più esasperata di naturalismo. Cos’è il naturalismo? L’imitazione della vita, della realtà come ti appare in uno specchio. Invece, se racconti devi dare un significato tuo alle cose, devi creare personaggi che rappresentano la tua visione del mondo. Il racconto realistico è quasi sempre molto meno naturalistico della mimesi caotica dell’avanguardia.

Come lavori?
Ho un certo metodo, una disciplina. Ma debbo dire che la mia non è una disciplina imposta. Non mi lego alla sedia. Diciamo che è una abitudine amorosa. Di solito mi alzo la mattina abbastanza, presto… Impiego molto tempo per scrivere. Un articolo lo scrivo quattro o cinque volte, impiego giorni a finirlo. Non parliamo poi di un libro: lo scrivo e lo riscrivo… Non ho la scrittura di getto. Non potrei mai lavorare col registratore, come fanno alcuni, che incidono e poi trascrivono. Devo avere la pagina davanti, mi ci devo soffermare, scrivere, tornare indietro, ricominciare da capo…

Ma tu hai usato il registratore nel tuo lavoro.
Non tanto. L’ho usato in Memorie d’una ladra (Bompiani, 1972) e, ultimamente, in un libro che sta per uscire e che si intitola Storia di Piera. È un libro intervista in cui Piera Degli Esposti racconta la sua storia… Parliamo di teatro, della sua vita… Una volta lei m’ha raccontato la sua vita e mi è sembrata talmente affascinante, così strana, che le ho detto: “Dobbiamo farne un libro”. Ma Storia di Piera m’appartiene fino ad un certo punto e non è un romanzo.

Qual è il libro a cui hai più lavorato, quello che t’è costato di più?
È Memorie d’una ladra… Perché io, in fondo, m’annullavo di fronte ad un personaggio del popolo. In questo subivo probabilmente l’influenza del ‘68. Ho fatto un enorme sforzo per identificarmi con Teresa, la protagonista… Non è che io rinneghi questa esperienza e, tra l’altro, io e Teresa siamo molto amiche… Però sono dovuta uscire da me stessa e ho dovuto riscrivere molte volte il testo, perché lei aveva una curiosa memoria e non distingueva un episodio dall’altro: li confondeva. Ho dovuto cioè ricostruire il suo passato. È stato molto faticoso.

Cosa stai scrivendo adesso?
Sono quasi quattro anni che lavoro ad un romanzo. Provvisoriamente potrebbe intitolarsi Lettere a Marina (Bompiani, 1981), ma non sono sicura che il titolo sarà quello. I titoli per me sono un problema. Invidiavo Pasolini perché lui ancora prima di cominciare a scrivere, già sapeva il titolo. Anzi, spesso sapeva il titolo, ma poi magari non scriveva il libro. Mi diceva: “Come ti sembra questo titolo?”. Ed io: “Bellissimo. Hai cominciato a scrivere?”. E lui: “No”. Invece a me succede il contrario. Ho quasi finito di scrivere questo libro e ancora non sono sicura del titolo… Ho cominciato con lo scrivere delle lettere ad una mia amica. Avevo delle cose da dirle. Il libro, quindi, è nato da una esperienza personale: stavo scrivendo delle lettere ad una donna e mi sono accorta che non volevo parlare solo a lei, ma a me stessa e anche ad altri e poi volevo inventare mescolando altre mie esperienze, così è nato il romanzo, un vero romanzo, con una storia, un racconto… Ci sono dentro questi ultimi dieci anni, il femminismo. Anche l’infanzia.

Questo libro nasce casualmente da un dato autobiografico o è decisamente autobiografico?
Non ho mai scritto un romanzo autobiografico nel senso stretto del termine. Kate Millett, per esempio, è una che scrive tutto quello che fa: si segna ogni cosa, quello che mangia, quello che pensa, chi vede e poi lo scrive. Lei non riesce a raccontare una cosa che non sia realmente accaduta nella sua vita. Identifica totalmente se stessa con la sua scrittura. Nel mio caso non è proprio così. Io ho bisogno di deformare, inventare, fantasticare.

Non ti senti un po’ in colpa per questa deformazione del dato obiettivo?
No, perché non lo faccio per nascondere. Lo faccio perché mi piace, perché voglio mettere in una storia anche altre storie. Se mi devo attenere alla cronaca, non posso metterci altro. Io parto, certo, dalla mia esperienza, ma ci sono altre esperienze intorno a me, esperienze che mi hanno colpito. Forse c’è anche il fatto che ho una curiosa capacità di immedesimarmi negli altri. Alle volte anche troppo. Non riesco a dare ragione a nessuno. Ho le mie idee, tuttavia mi immedesimo molto in quello che mi dice una persona, soprattutto in quello che è una persona. Mi riesce molto difficile, per esempio, condannare qualcuno. Perché, se lo conosco, ci trovo comunque aspetti che mi affascinano.

Cosa leggi? Quali sono i tuoi autori? O meglio: ci sono autori che tu possa definire tuoi?
Per me è difficile rispondere a questa domanda. Io sono una che prende delle cotte. Fin da bambina. Quando mi innamoro di un autore, tendo a divorarlo, vado a cercare tutti i suoi libri. Uno dei primi su cui mi sono fermata a lungo è stato Proust, stranamente, perché non lo sento vicino come scrittore. Ho amato molto anche Fëdor Dostoevskij, Katherine Mansfield e Charlotte Brontë. Sono una lettrice appassionata. Mi prendono in giro per questo, perché ho sempre una valigia piena di libri. Quando viaggio devo avere i miei libri. Leggo di tutto, molti libri di donne, ma è il grosso romanzo che amo… Mi piace il romanzo in cui potersi perdere, come Sister Carry (Einaudi, 1951) di Theodore Dreiser o La lettera scarlatta (Mondadori, 1930), di Nathaniel Hawthorne. Insomma mi piace il romanzo in cui ci sia una storia. Credo di essere una delle poche persone che ha letto tutto Balzac.


“Lotta continua”, domenica 20 aprile 1980

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