6.8.17

I peggiori affari del cinema italiano (Alberto Crespi)

ANCONA — Progetto: «ideazione per lo più accompagnata da uno studio relativo alla possibilità di attuazione o di esecuzione». La definizione è del Devoto-Oli, uno dei dizionari «sacri» della nostra lingua. Per cui, se noi vi venissimo a raccontare che il cinema italiano, nella sua lunga storia, è sempre stato «a-progettuale» (alfa privativo), voi dovreste dedurne che si tratta di un cinema privo non tanto di idee, quanto delle analisi e delle ricerche in base alle quali tali idee possono realizzarsi. E avreste indovinato.
Più si scava, più si scopre che la storia del cinema è ancora tutta da scrivere. La scoperta si è riproposta, nello splendore dei 70 millimetri, ad Ancona, in occasione del convegno/rassegna «Cinecittà — il modo di produzione italiano», organizzata dal medesimo staff che da anni cura la Mostra di Pesaro. È stata anche l’occasione per omaggiare uno dei grandi del nostro cinema medio, se ci passate la contraddizione: Alessandro Blasetti, al cui film La corona di ferro sono stati dedicati un volume e una mostra in cui erano raccolti i disegni di Virgilio Marchi per le splendide scenografie.
A dimostrazione che Freud esiste, abbiamo usato la parola «medio». Un lapsus classico. Noi italiani, quando parliamo di film, tendiamo sempre a distinguere un cinema «alto» (i grandi autori, Visconti, Fellini, Antonioni...), un cinema «medio», dignitosamente popolare (i vari Blasetti, Camerini, Risi, Germi, Monicelli, ecc.), e un cinema «basso» in cui non a caso si fanno i nomi, non i cognomi: Franco e Ciccio, Cochi e Renato, Gigi e Andrea, o addirittura i nomignoli come Totò che però, si sa, è da tempo in odore di santità. Come se il livello di un film dipendesse dalla genialità — o dalla biecaggine — di questi signori. Non è vero. Nel convegno anconetano, a cui hanno partecipato i migliori nomi della storiografia cinematografica italiana, si è tentato una volta tanto di parlare di cinema partendo dalla produzione, dai metodi e dai modi produttivi. Perché il cinema, nei Paesi occidentali, è un’industria. E quando è «a-progettuale» (ritorniamo alla parola iniziale) sarà semplicemente un’industria «a-progettuale», cioè scalcagnata, soggetta ad alti e bassi, un po’ stracciona, ma pur sempre industria.
Tra i film recuperati ad Ancona, tutti girati a Cinecittà dal 1937 (anno della fondazione degli studi di via Tuscolana, Roma) in poi, ce n’era uno, Apparizione, insolito ed esemplare. Innanzitutto è diretto da un francese, Jean de Limur, ma questo è secondario. Si svolge tutto in una locanda di campagna dove una fanciulla (Alida Valli) sta per sposarsi con un giovane meccanico (Massimo Girotti), quando sul posto giunge una macchina di lusso guidata da un bellissimo signore (Amedeo Nazzari). Ed ecco la novità a differenza di tutti gli altri divi che lo circondano (oltre a Girotti e alla Valli, ci sono Paolo Stoppa e Andreina Pagnani), Nazzari, nel film, interpreta Nazzari, cioè se stesso.
E la fanciulla, davanti al divo dei suoi sogni, dimentica il fidanzato e fugge con lui. E Nazzari, che è un buono, la tratta volutamente male, la fa impazzire di dolore, e tutto per convincerla a tornare alla casetta avita, al fidanzato e alle zie che tanto la amano...
Perché Apparizione, apparentemente una graziosa commediola, è un film esemplare? Perché il cinema italiano, nel momento in cui tenta di riflettere su se stesso, ripropone i soliti miti del divismo, anche se ne cambia la valenza per rivalutare la vita quotidiana. Gianpiero Brunetta (autore dell’unica, vera Storia del cinema italiano), nella relazione introduttiva al convegno, lo ha chiarito perfettamente: il «bene-attore» è l’unico su cui il cinema italiano ha sempre investito, spesso in modo scriteriato, senza nemmeno che i contratti prevedessero un minimo ritorno economico del prodotto (cose chi a Hollywood, quando scritturavano gli attori, non scordavano mai). Per il resto, dal punto di vista industriale, un disastro: secondo Brunetta, leggere i bilanci delle case di produzione è come indagare nei bilanci delle società di calcio. Assoluta incoscienza del film come merce; totale schizofrenia nel rapporto prodotto/capitale investito, aumento della produzione proprio nei momenti storici (inizio anni 20, fine anni 60) in cui cala il consumo. È l’unica industria italiana che anche nei periodi di splendore lavora dichiaratamente in perdita. E ciò nonostante coltiva sogni di grandezza: negli anni 10 le case italiane sognano di conquistare il mondo, hanno filiali ovunque, da Mosca a Singapore (secondo Brunetta è un transfert del sogno imperiale), mentre contemporaneamente gli americani lavorano per un mercato interno estremamente ristretto e individuato e si preparano, loro sì, a inondare di film l’intero pianeta.

Naturalmente non è, quella del cinema italiano, una storia di sole nefandezze. Ma è sicuramente una storia che contraddice in pieno la teoria dei tre livelli a cui accennavamo in precedenza. La produzione «alta» e quella «bassa» si incrociano di continuo. Gli esempi sono innumerevoli: Achille Piazzi che produce sia Il grido di Antonioni che i film di Ercole, uno sceneggiatore come Ennio De Concini che si inventa il genere mitologico (i «sandaloni», come li chiamavano) e vent’anni dopo scrive La piovra per la Tv, la Titanus che recupera il tonfo di Sodoma e Gomorra di Aldrich usando le medesime strutture (set, scenografie, comparse, troupe) per girare due filmacci di Corbucci (Romolo e Remo e Il figlio di Spartacus), una casa come la Scalera, fondata nel ’38 da due costruttori edili ammanicati con il fascismo, che negli anni 50 si rovina per produrre l'Otello di Welles... Una storia di altalene, in cui anche noi spettatori abbiamo le nostre colpe, se è vero che nel «museo dei cattivi affari» (una rubrica pubblicata negli anni 50 sulla rivista Cronache del cinema e della televisione, e che raccoglieva i minori incassi della stagione) figurano film come La terra trema, Sciuscià, Germania anno zero, mentre qualche anno dopo il 10% degli incassi dei film italiani è appannaggio di Franchi e Ingrassia.
Una storia di splendori e di corbellerie. Una storia che gli economisti dovrebbero prendere in pugno, e rifare daccapo. L’anno prossimo Ancona sarà dedicata alla Titanus, una delle case storiche della nostra produzione, fondata da Lombardo e artefice di successi enormi come i film di Totò e i melodrammi della coppia Amedeo Nazzari-Yvonne Sanson. Sarà un modo di ricostruire il cammino del nostro cinema basandosi sui dati non sulle sedute psicanalitiche a questo o a quel regista. E senza rinunciare al divertimento, perchè quelle due o tre cose che si imparano sui produttori sono spesso impagabili.
Vi salutiamo con l’ultimo aneddoto, riesumato da Gianni Volpi nella sua relazione sul western-spaghetti.
Quando uscì Per un pugno di dollari, la casa di produzione Jolly non acquistò i diritti del film di Kurosawa La sfida del samurai, il cui Leone si era ispirato. Speravamo di passarla liscia, ma i produttori giapponesi mangiarono la foglia e chiesero i danni. Perso per perso, la Jolly concesse loro l’esclusiva sugli incassi del film in Giappone. Per un pugno di dollari incassò una montagna di yen, pari a 1.500.000 dollari dell’epoca. I diritti ne sarebbero costati solo 10.000: proprio «un pugno di dollari», che bel titolo per il prossimo convegno...


l'Unità”, ritaglio senza data, ma 1985

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