20.8.17

Andersen e la fiaba della sua vita (Maria Teresa Carbone)

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Un'infanzia povera, l'ostilità dell'élite letteraria, ma infine la gloria agognata

Se vuoi conoscere la vita di un autore, non leggere la sua autobiografia. Valido per quasi tutti gli scrittori passati, presenti e futuri, il monito si rivela particolarmente utile per Hans Christian Andersen, di cui nei giorni scorsi la casa editrice Donzelli ha mandato in libreria un corposissimo (più di settecento pagine) volume curato da Bruno Berni e intitolato La fiaba della mia vita. Già il titolo, in effetti, dovrebbe mettere in guardia i lettori: più che raccontare, con la sincerità che oggi ci sembrerebbe obbligata, le principali tappe della sua esistenza, quello che a Andersen preme è dimostrare al mondo, e forse ancora di più a se stesso, di avere avuto una sorte eccezionale, di essere - lui, nato poverissimo in una famiglia disastrata, oggetto di scherno e ostilità nel corso della giovinezza, costretto anche in età matura a fare i conti con la presunzione e la boria dei ricchi - un eroe come quelli dei suoi racconti. Insomma di essere - per evocare quella che forse è la sua fiaba più nota - il brutto anatroccolo che dopo mille vicissitudini si scopre gloriosamente cigno.
Non a caso Andersen cominciò a scrivere di sé ancora molto giovane, a 27 anni, prima cioè di raggiungere la fama e di diventare (come è del resto ancora oggi) l'autore danese più tradotto al mondo, perfino più del quasi coetaneo Soren Kierkegaard, con cui tra l'altro ebbe - come ricorda Berni nell'introduzione - un battibecco critico in età giovanile.
«Leggevo una quantità di biografie di uomini famosi, mi facevano un effetto singolare, la mia fantasia era aperta al mondo fiabesco, mi immaginavo la vita come una fiaba e non vedevo l'ora di potervi comparire anch'io nel ruolo dell'eroe», scrisse appunto in quel primo abbozzo di autobiografia elaborato - sottolinea Berni - quando ancora non aveva pubblicato, e neppure scritto, né romanzi né fiabe, e produceva quasi compulsivamente versi e operine teatrali di valore non eccelso.
«Il mio destino non sarebbe potuto essere più felice e saggio, né governato meglio», si vanta invece lo scrittore nella prima pagina dell'autobiografia composta nella maturità, segnando fin dall'incipit quello che sarà il tono di tutto il libro. Non che manchino le avversità lungo questa narrazione, che segue la vita dell'autore dalla nascita a Odense il 2 aprile 1805 fino al cinquantesimo compleanno e oltre, in una serie di aggiornamenti successivi. Anzi: la sua vita misera di bambino delle classi inferiori, le tante umiliazioni subite durante il periodo della scuola, l'ostilità prolungata
della società letteraria danese, che rifiutava di capire la qualità di un'opera straordinariamente originale e innovativa, nulla di tutto questo viene taciuto da Andersen. Ma la povertà della sua famiglia, come i rimproveri dei professori o le critiche negative rivolte ai suoi libri (tutti puntigliosamente elencati, come tanti sassolini nelle scarpe che lo scrittore ormai famoso pare ben deciso a togliersi) diventano nel racconto altrettanti espedienti narrativi di cui Andersen si serve per mettere in risalto la gloria ottenuta, gliomaggi entusiasti e le dichiarazioni sfegatate di amicizia rivolte da uomini potenti o famosi.
A tratti questa continua, perseverante autocelebrazione rischia di assumere tratti grotteschi. Quando per esempio Andersen racconta di essere stato accolto con infinito giubilo da Charles Dickens, uno degli scrittori da lui più amati, e dalla sua famiglia, è difficile trattenere un sorriso pensando allo stesso episodio, così come fu vissuto dall'altra parte. Ricorda infatti ancora Berni che l'autore di David Copperfield, alla fine del soggiorno del capriccioso “amico” in casa sua, scrisse sullo specchio della camera degli ospiti: «Hans Andersen ha dormito in questa stanza cinque setti-mane. Alla famiglia sono parsi SECOLI!».
Difficile dunque, e fuorviante, leggere La fiaba della mia vita in cerca di verità. Oltre tutto Andersen, pur senza mentire mai, decise - e come non capirlo? - di omettere tutto quello che avrebbe potuto incrinare la paziente costruzione delsuo personaggio. Nel libro non si fa parola, per esempio, dell'alcolismo della madre (trattato invece, in una rassicurante terza persona, in una fiaba tra le meno note, Non era buona a nulla), né si accenna mai alla sorellastra, prima prostituta e poi lavandaia, che lo scrittore non aiutò mai e che evitava di vedere. E un silenzio comprensibile - dati i tempi - cala sull'attrazione dello scrittore per gli uomini, testimoniata invece dall'epistolario e dai diari: La fiaba della mia vita inquadra soltanto amori platonici per irraggiungibili fanciulle di nobile famiglia, o per l'altrettanto irraggiungibile Jenny Lind, celebre cantante dell'epoca.
Eppure, se si va al di là del tentativo di vedere in una autobiografia un documento processuale, La fiaba della mia vita ha molto da dire, e non solo come testimonianza di un'epoca fervida di idee edi incontri o come ineguagliabile raccolta di reportage di viaggio (impressionabile e ipocondriaco, Andersen trascorse tuttavia lunghi periodi della sua vita tra treni e battelli e vapore, andando su e giù per l'Europa, dall'amatissima Italia, dove tornò più volte, a Parigi, a Berlino). Ha molto da dire, il libro, su Andersen e in genere su tutti igrandi scrittori che siamo abituati a considerare “per bambini”, perché ci mostra come qui forse più che altrove autobiografia e scrittura narrativa si intreccino in modo pressoché inestricabile e come la categoria dei libri per l'infanzia sia un'invenzione dell'industria editoriale, alla quale d'altronde proprio Andersen - autore di numerosi romanzi per adulti - si ribellò: «Per fornireai lettori una prospettiva», scrive nell'autobiografia, «avevo intitolato i primi fascicoli Fiabe narrate ai bambini; avevo messo i miei brevi racconti sulla carta nel linguaggio e con le espressioni con cui io stesso li avevo narrati ai piccoli, e mi ero reso conto che erano gradite alle età più diverse; i bambini si divertivano soprattutto con quello che chiamerei l'ornamento, invece il grande si interessava all'idea più profonda. Le fiabe divennero una lettura per bambini e adulti, e credo che nella nostra epoca sia questo l'obiettivo di chi vuole scrivere fiabe. Cominciarono a trovare porte aperte e cuori aperti; e a quel punto cancellai “narrate ai bambini”».
E giustamente: per quanto vi si racconti di ragazzi e ragazze, di animaletti, di regine o di re, storie come La principessa sul pisello o I vestiti nuovi dell'imperatore parlano anche, se non soprattutto, a chi conosce per esperienza intima la vigliaccheria, la meschinità, la vanagloria. Come Andersen, del resto.

pagina 99we sabato 5 dicembre 2015

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