C’è nessuno che voglia unirsi a me
nel lanciare alcuni sassi verso
quegli insegnanti che amano porre la
domanda:
“Che cosa sta cercando di dire il
poeta?”
come se Thomas Hardy e Emily Dickinson
si fossero sforzati ma alla fine
avessero fallito:
disgraziati incapaci di parlare, che
altro non erano,
con la penna in bocca a guardare fuori
dalla finestra in attesa d’un idea.
Sì, sembra che Whitman, Amy Lowell
e tutti gli altri potessero solo
tentare e fallire,
ma noi nella classe di Inglese della
terza ora della prof Parker
qui al Liceo di Springfield ce la
faremo
con l’aiuto di questi questionari di
comprensione
a dire quel che il povero poeta non
riusciva a dire,
e faremo tutto questo prima
dell’orgia dell’insalata di uova e
tonno nota come pranzo.
Stasera, tuttavia, io sono quello che
cerca
di dire che cosa significa questa
assenza,
noi due che dormiamo e ci svegliamo
sotto due diversi tetti.
L’immagine di questo vaso di fiori
recisi,
non del nostro giardino, non aiuta.
E lo stesso vale per quel piatto
singolo,
la lampada solitaria, e il tempo là
fuori che preme il volto
contro queste finestre nuove, la
pioggia leggera e il gelo del mattino.
E allora lascerò che sia la prof
Parker,
che sta picchiettando con un gesso la
lavagna,
e i suoi studenti – alcuni con la
mano alzata,
altri trasandati con i loro cappellini
portati a rovescio –
a capire quel che sto cercando di dire
su questo posto in cui mi trovo
e di farlo prima che suoni la
campanella di mezzogiorno
e sia sguinzagliato il tornado di
polpette di carne.
da Balistica, Fazi, 2011 –
Traduzione di Franco Nasi
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