Il testo narra, ventisette anni dopo, dal punto di vista di un protagonista, una delle “occasioni perdute” della storia italiana, le dimissioni del governo presieduto da Parri, il cosidetto governo del Vento del Nord. E’ il racconto di una battaglia impari, di una congiura, di una vera e propria “restaurazione”. E’ da leggere anche per l’alta moralità, l’ironia, il senso del limite che sorreggono la memoria e la scrittura di Ferruccio Parri, di quel modesto e onesto padre della patria democratica che Walter Binni ebbe a definire “un volto nobile fra tanti brutti ceffi”. (S.L.L.)
Bosco di Corniglio (PR), Ferruccio Parri ricorda la Resistenza |
Perché parlare ancora di questo governo Parri, intermezzo tra i due governi Bonomi di attesa ed il primo degli otto governi De Gasperi? Oltre la memoria degli annuari, qualche curiosità è rimasta tuttavia negli storici e negli uomini di quel tempo. Scrivo un po' per loro, ma anche per me. Mi interessa, in generale, sempre e soltanto il giudizio, che è spesso non indulgente, che do io stesso delle mie azioni, e qui mi interessa fissare, prima di tutto per me, il posto che ho avuto in un momento critico della storia italiana, utile forse ad intenderne anche il corso attuale. Ventisette anni sono passati: caduto ogni risentimento, si può parlarne con sereno distacco.
Per spiegare come cadde, devo ricordare come questo governo nacque. Avvenuta la liberazione, occorreva un governo nuovo. I CLN del Nord — Milano in testa — facevano la voce grossa, in nome delle nuove attese, delle grandi speranze e degli stringenti bisogni. E non mancava quel tanto di diffidenza che i cisalpini hanno per la Roma dei politicanti, anche se di romani nel Comitato nazionale di liberazione non ce n'erano. Si dava sfogo al lungo silenzio nei grandi e tumultuosi comizi. Correvano parole grosse: rivoluzione e repubblica erano le più innocenti. Soffiava il "vento del Nord," che impermalì tanti generali e burocrati di Roma e gentiluomini del Sud.
Nenni si sentì portato da quel vento impetuoso e dall'entusiasmo sollevato dal richiamo ancor affascinante del socialismo: abbattere la reazione in agguato, repubblica subito e Costituzione. E quindi presidenza del Consiglio a Nenni. Credo esatto come dice Andreotti che il presidente De Gasperi avrebbe preferito aspettare. Ma la previsione del socialismo al Viminale corrucciava i non angelici custodi che vigilavano dal Vaticano e dall'ufficio dell'ammiraglio Stone. La grande e silenziosa armata raccolta dietro le parrocchie guardava ormai a De Gasperi come a proprio fiduciario e rappresentante. Ed egli non poté far a meno di contrapporre la propria candidatura. Le abilità manovriere dei politici romani non valsero a dirimere la contesa, vero braccio di ferro. Il CLN di Milano aveva offerto la propria mediazione ed una propria candidatura, ed i romani avevano gentilmente scartato l'una e l'altra, diffidenti per parte loro della sprovvedutezza politica dei milanesi. Ma quando la contesa si incancrenì pericolosamente — Bonomi si era dimesso da oltre un mese — il CLN di Milano tornò alla carica ritenendo che solo un rappresentante diretto della Resistenza poteva esser posto su un piano superiore alla contesa. Più di me, i titoli li aveva Rodolfo Morandi, allora presidente del CLN Alta Italia. Ma era socialista anche lui. Troppo a sinistra. Valiani è il responsabile principale della candidatura Parri. Brusasca la portò a Roma. La Malfa fu di parere contrario: disse che mi sarei bruciato io, ed avrei bruciato il partito (d'azione). La Malfa ha intelligenza, sensibilità, capacità di far manovra e di far politica in generale eccezionali: capivo che per quello che mi riguardava aveva ragione, ma la previsione non importava tanto da pesare sulle mie decisioni. Per il partito il discorso è più complesso. A rifiutare mi spingeva la consapevolezza di non aver preparazione giuridica ed amministrativa sufficiente, e di non aver né gusto né attitudine per la vita politica. Ad accettare, a parte un certo istinto di avventura, mi spingeva quel certo complesso di "doverismo" che mi ha sempre dominato (e fregato). Io ho la disgrazia di non saper dimenticare, e la Resistenza con quanto ha di tormentoso, di doloroso e di grande aveva profondamente inciso il mio spirito. Portarlo al Viminale mi pareva compito da non poter rifiutare. Portare l'esperienza unitaria della lotta di liberazione mi pareva potesse servire per la guida del ministero che doveva preparare la Costituente ed anche per il Partito d'azione.
La composizione del ministero non fu cosa facile, come del resto accade sempre per ogni formazione che esiga dosature e cura degli equilibri. I partiti partecipanti erano sei, perché rientravano socialisti ed azionisti che avevano disertato il secondo gabinetto Bonomi non in regola con l'investi tura del CLN nazionale. Sempre assenti i repubblicani, intransigenti sul principio antimonarchico. Guidare questa esarchia era allegro e facile come reggere un tiro a sei di cavalli diversi di peso e di umore. L'umore tra destra e sinistra era in generale sospettoso. Ene dette provalacontesa impiccata per il ministero dell'Interno che doveva preparare le elezioni. Per evitare il naufragio dovetti io stesso, tra il malumore generale, assumerne l'incarico, sotto la vigilanza del buon Spataro, sottosegretario, avendo dovuto accettare anche un droit de regard del liberale Brosio, vicepresidente del Consiglio. L'altro vicepresidente era Nenni, il primo incaricato di preparare la Consulta, il secondo di pensare alla Costituente.
Non ho certo l'intenzione di tracciare qui la storia del governo Parri. Non sarebbe cosa breve, tanto gravi e urgenti furono i problemi della difesa dell'unità nazionale, dei rapporti con gli alleati, della saldatura tra Nord e Sud, degli approvvigionamenti vitali, del ristabilimento di una certa tessitura comune di vita civile. E non sarebbe lieta, tanti furono i dissapori, i malintesi, i sospetti, le ostilità ingiuste e il malessere di un'aria greve di tranelli e complotti intessuti dietro le quinte. Certo posso dire che sono le riforme che non si vedono quelle che costano più lavoro. E posso aggiungere che la maggior parte dei giudizi d 'insieme giornalistici che ho potuto leggere su questo momento della storia italiana mi sono parsi superficiali, inesatti e tendenziosi.
Occorrerebbero forse sui capitoli di maggior interesse storico — mezzadria e contratti agrari, consigli di gestione, ricostruzione industriale, scuola, riorganizzazione militare, epurazione, Sicilia, ecc. — saggi monografici adatti a giovani studiosi sul tipo di quello che il professor Enzo Piscitelli dell'Istituto storico romano della Resistenza ha dedicato al mancato cambio della moneta e alle connesse questioni finanziarie.
Certo con tanta pressione di pensieri e d'inquietudini potevo facilmente smarrire quel modesto sacchetto d'ideali che mi faceva da scorta nella mia avventura romana. Mi manca il dono dell'eloquenza comunicativa e la voglia di declamare, e gli ideali che avrei dovuto ogni tanto fieramente proclamare se ne stavano acquattati, vergognosi di esser capiti male, travisati o malamente strumentalizzati. Ero partito con l'idea che il semplice motto originario degli azionisti "Giustizia e libertà" avesse le implicazioni politiche, giuridiche e legislative necessarie e sufficienti per una riforma democratica del nostro sistema sociale. Non era una posizione classista, distinta quindi da quella ufficiale dei comunisti, ma aperta e favorevole a tutti i progressi della classe operaia, con la condizione tuttavia di una politica di concretezza e di realismo. Vedevo bene che avevamo un bisogno primario di rimettere al lavoro produttivo non tanto le poche grandi industrie quanto la folla degli imprenditori minori. Se non riprendeva il flusso del reddito l'alternativa era la disoccupazione, la miseria e la fame.
I comunisti queste cose le sapevano bene, ma non tenevano — mi pare — a proclamarle. Sapevano bene che mancavano le forze, e mancava la possibilità internazionale di buttar per aria le strutture sociali, specie dell'industria, surrogandole con nuove forme di gestione. Però una certa tensione nella fabbrica e fuori della fabbrica serviva al partito. Ma serviva anche a impaurire l'Italia dei possidenti e l'Italia conservatrice.
Su da noi, nei CLN del Nord, la possibilità di dialogo con i liberali e coi democristiani non si era quasi mai interrotta, ed abbastanza larga era sempre rimasta la possibilità di mediazione e di compromesso. Dozza, che rappresentava i comunisti nel CLN di Milano, fu un seduttore modello. La Resistenza aveva bruciato in larga parte delle classi sociali molte scorie. Nessuno dei membri di tutti i grandi CLN pensava possibile tornare ai livelli, tempi e governi dell'Italia prefascista. Oltre Roma, padroni e agrari erano di un'altra razza. E al governo le deliberazioni erano spesso difficili o dilatorie o non seguite. Tutte le domeniche i capi partito andavano a predicare in provincia. Discorsi infiammati. "O la rivoluzione o il caos," "o la repubblica o il caos." Poi il lunedì tornavano in Consiglio dei ministri mansi e soddisfatti. Ma parlavano e inveivano i giornali dell'opposizione monarchica e reazionaria. Questo è un governo o un club di giocatori di poker?
Ho sentito crescere la delusione numero uno, che debitamente corretta si potesse ripetere a Roma l'esperienza che nel Nord, nonostante tutti gli attriti, aveva permesso la vittoria. Mi ero ingannato ritenendo che grandi obiettivi come la Repubblica e la Costituzione potessero legare e indurre a concentrare gli sforzi non meno che una guerra di liberazione.
La seconda delusione mi venne dalla Resistenza. Già in due missioni compiute a Roma e nel Sud nel 1944 e '45 avevamo constatato con disappunto quanto fosse grande la disinformazione sulla lotta oltre la linea gotica e sul suo costo. A Napoli era completa anche l'indifferenza. Ora, nel luglio del 1945, non ero così ingenuo — come sostengono caritatevolmente in coro tutti i commentatori della mia defenestrazione dal governo — da meravigliarmi dell' indifferenza dell'eterna città per la lotta partigiana, della cauta ostilità della burocrazia ministeriale, della puzza di abitudini e di rimpianti fascisti affiorante in tutti gli angoli. Mi preoccupava un certo divario di fondo che rilevavo con la classe che faceva politica e guidava i partiti. Faccio eccezione naturalmente per i compagni portati a Roma dal vento del Nord. Il primo segno l'avevo avvertito negli ultimi giorni della liberazione quando Longo era stato ritirato dal comando del CNL e assegnato a compiti di direzione del partito. Dunque la lotta di liberazione è passata agli atti? Certo dovevo capire anch'io che era la lotta politica che ora prendeva il primo interesse. Era il diverso angolo visuale col quale considerava la Resistenza e la guerra partigiana chi l'aveva vissuta e chi la conosceva solo dai racconti altrui. Ben pochi dei componenti di quel governo V avevano sentita come cosa loro. De Gasperi si era informato con attenzione, quasi con scrupolo. Ma c'erano dentro in prima linea i comunisti, amici di Stalin e quindi nemici degli alleati. Posizioni dunque da non aggredire, ma da accantonare.
Io non potevo far capire alla gente fredda quanto valesse la purezza del sacrificio volontario di tanti giovani, e dei più bravi, come non dovesse essere ignorato e passato anch'esso agli atti il martirio delle popolazioni. Io sono un sentimentale e i sentimenti non si travasano. Ma vi era un'altra cosa che dovevo volere si capisse. Un popolo che senza ordini, senza capi, fa la scelta d'insorgere, organizza una rete nazionale di comitati per la lotta politica, crea un'armata volontaria di combattenti che perde nella lotta un quarto dei suoi effettivi, precedendo gli eserciti alleati nella liberazione delle città, mantenendo sino allo scioglimento il carattere di insurrezione popolare e l'unità di forza nazionale: questa nella storia del nostro paese è una cosa grande. E ne è il momento più alto poiché il paese vivo ha scelto di riscattare col sangue dei suoi ragazzi la vergogna della disfatta fascista. Credevo dovesse essere questo lo spirito col quale si doveva esigere dagli alleati una pace da combattenti, non da vinti. Credevo che le semplici parole di libertà e giustizia, accettate come linguaggio comune da tutta la Resistenza, dovessero aprire la Costituente. Era un discorso che i politici romani preferivano scartare.
Una terza delusione si aggiungeva a questa malinconia. Mi accorgevo solo ora quanto danno veniva dalla condizione di movimento minoritario della Resistenza: minoritario socialmente e territorialmente. Una parte del paese non la capiva, le classi possidenti, specialmente gli agrari, la temevano, a Sud e a Nord. I contadini del mezzogiorno non avevano altro modo di aver voce e peso che bruciar municipi ed invader latifondi. E non avevamo ben capito che la struttura burocratica e statale del fascismo era stata appena scalfita dall'epurazione. I giudici docili ed i professori zelanti erano ancora al loro posto. E non avevamo ben capito che, ripreso fiato, questa Italia che si era trovata così bene col fez e con l'impero avrebbe cercato di riprendere il posto e il potere, con la stessa sagomatura mentale e morale che venti anni di fascismo le avevano dato. La misericordia democristiana ha grandi braccia, ed è anche naturale che numerosi gruppi sociali vi trovassero accoglienza e la loro espressione politica naturale. È altresì naturale che esercitassero il loro peso sulla politica così rapidamente pluralista del partito. Si stava producendo un vasto e silenzioso riflusso sociale che già si colorava politicamente. Prima di tutto, blocco dei rossi. E poi sotto sotto una certa diffusa aspirazione, portata soprattutto dallo scirocco del Sud, di liberarsi dei liberatori. Dava fastidio l'agitarsi sul coperchio del bailamme di quei mesi di confusione dei catecumeni e dei neoconvertiti alle bellezze della democrazia.
L'attività legislativa e amministrativa si faceva difficile e faticosa. Mi dava pensiero il ritardo della convocazione della Consulta, obiettivo fondamentale a mio giudizio di un governo che non avendo camere elettive cui rispondere era doveroso si provvedesse di un autorevole e rappresentativo organo di dibattito quasi in sede vicaria. Vedevo ingrossarsi in prospettiva i problemi del referendum istituzionale, della convocazione della Costituente e del sistema elettorale. Comunisti, socialisti, democristiani e liberali puntavano, ogni partito, su obiettivi propri e diversi. E io, lì in mezzo, che cosa ci rimanevo a fare con le mie idee troppo semplici e gli ideali troppo seri? Ruini, che si era assunto con i colleghi di governo l'incarico d'insegnarmi l'ABC della politica, come un bonario Nestore, non gradiva che mi dichiarassi soddisfatto della mia ignoranza. In realtà ero uno spaesato. Uno spaesato inquieto. Perché dobbiamo cedere? La lotta di liberazione ha lasciato al Nord e in buona parte del centro-Italia un' ampia rete di organismi di dialogo e di dibattito, una rete di rapporti politici. Restano pur sempre, come punti di riferimento, quasi tutti i prefetti politici della Resistenza. Perché non utilizzare questa trama, riordinarla, ravvivarla ed estenderla? Se sentiamo nell'aria una certa volontà di riscossa conservatrice, reazionaria, monarchica, clericale, anzi clerico-fascista, perché non preparare una barriera di contenimento e di controffensiva? Non diversi erano i pensieri a Milano e nei compagni dei CLN del Nord. Si strinsero accordi, si fece qualche piano. Ma un primo segno del tempo nuovo lo avevamo dalle esitazioni di compagni democristiani e dal ritiro dei liberali.
Bastò questo segno di ripresa ciellenistica per scatenare l'attacco al governo, ma particolarmente al suo presidente. Conducevano con molta grinta i liberali, secondati da ali marcianti e strepitanti di monarchici e di agrari. Non mancavano nella politica quotidiana del governo motivi di polemica, per esempio, contro gli interventi del ministro della Giustizia Togliatti, del ministro dell'Agricoltura Gullo, del ministro dell'Interno Parri a proposito di disordini locali, presto sedati senza polizia. Ma l'offensiva contro i CLN era diventata il leitmotiv radicale. La "continuità dello stato" era il sacro testo violato dai reprobi, storicamente e politicamente incolti, inconsapevoli o docili strumenti delle mire eversive dei comunisti. Non era una polemica e una battaglia nuova: già nel 1944 quando i CLN preparavano gli schemi per le nuove cariche pubbliche era stata sollevata la stessa obiezione, oggetto di discussioni vivaci. Era stata, e tanto più era ora, una delle questioni che ci avevano disturbato di più. Una delle ragioni più evidenti della battaglia passata era stata proprio quella di rompere la continuità non solo con lo stato fascista, ma anche con quello prefascista. Autori liberali ci avevano convinti della necessità di riformare la struttura di quello stato napoleonico, prefettizio, autoritario e centralista. Era nostra esperienza che bisognasse accrescere in ogni modo la partecipazione dei cittadini alla vita della collettività. Le campagne meridionali ribollivano di proteste: l'urgenza della riforma agraria diventava sempre più evidente.
Tenevamo ancora ai CLN e ai nostri prefetti perché, scartando ogni usurpazione indebita di poteri civili, rimanevano organi di collegamento più che utili per superare un anno di transizione, tormentato da mille inquietudini locali, per dare modi efficaci di contatto del governo col popolo. Le mie spiegazioni e quelle di Togliatti, in giusta difesa dei tribunali popolari che avevano bene operato al Nord, non placarono gli oppositori e le loro intimazioni perentorie per il ritomo su tutta la linea alla normalità. Alla vecchia normalità.
Già in agosto qualche ronzio mi era arrivato all'orecchio: voglia di farmi fuori. Con la ripresa di settembre si sviluppò la polemica tambureggiante. Con ottobre secondo una previsione lineare la situazione si doveva o chiarire o spaccare. I colleghi si mostravano tuttavia tranquilli sulla sorte del gabinetto. Pareva anche a me fuori del prevedibile che questioni di lana caprina potessero interrompere tanti impegni e provocare le prevedibili ire dell'Italia partigiana.
Ma l'ottobre portò indicazioni non rassicuranti, che aggravavano le mie difficoltà. Diventò presto chiaro che tra Napoli e Roma si stava intessendo un piano con fini politici ben determinati. I miei rapporti con Benedetto Croce, pontefice massimo ed infallibile del liberalismo conservatore, non erano buoni. Non amava il rivoluzionarismo intellettualistico del Partito d'azione: sono noti i suoi strali. Era pieno di dispetto per i grandi crociani che lo avevano abbandonato passando tra gli azionisti. Lo aveva punto un giudizio da me espresso nel discorso di inaugurazione della Consulta sul paternalismo semiborbonico, non democratico, dei regimi prefascisti; ne era seguita una polemica da me certo non desiderata. Disse ai giovani che aveva intorno e gli citavano alcune mie posizioni intransigenti, che avevo temperamento di fanatico o di mistico, pericoloso in ogni modo al governo. Era politicamente nelle mani di un gruppetto di abili cortigiani, che ottennero la sua benedizione per l'operazione liberatrice dall'incubo azionista. Nulla mi parve così mortificante come la strumentalizzazione di un'autorità culturalmente così alta e della sua dottrina per una operazione di modesta cucina politica. Si veda quello che ne scrisse Omodeo dopo la crisi del governo. Avevo contro i vecchi, pur sempre rispettabili santoni, rientrati dall'esilio, e delusi per non esser stati chiamati a salvare la patria. Particolarmente astioso Nitti. Quindi tutta la intelligenza ed il politicantismo meridionale contro il Parri e l'indigesta Resistenza che si portava dietro.
Era condizione evidente di riuscita della operazione l’accordo con la maggior forza politica di destra, cioè con De Gasperi. Sull 'atteggiamento di De Gasperi non sono concordanti tutte le versioni che se ne danno, e devono naturalmente far conto della prudenza delle sue manovre tattiche. Doveva certo molto allettarlo la possibilità di risolvere a proprio vantaggio la contesa del giugno con Nenni per la presidenza del Consiglio, deve averlo trattenuto la previsione della reazione comunista e socialista ed il prezzo eventuale della rassegnazione di Nenni (fu il ministero dell'Interno).
Non lo preoccupava la situazione internazionale. È vero che in Europa non si desiderava una crisi. È vero che la stampa estera non fu con De Gasperi: a Londra si deplorò vivamente la replica di De Gasperi al mio discorso di congedo del 24 novembre; gli organi di governo di Belgrado e di Mosca deplorarono il risorgere con De Gasperi della vecchia Italia nazionalista e prefascista. Mai governi, quello di Londra in prima linea, avevano interesse e piacere a nuove soluzioni ministeriali che assicurassero maggior stabilità, maggior puntualità di esecuzione delle clausole di armistizio, nessuna connivenza con i comunisti. De Gasperi rappresentava la più forte capacità di coagulazione di tutte le forze conservatrici italiane. E così quando portai al principe Umberto la comunicazione delle mie dimissioni se ne rallegrò prima di tutto lui stesso, data la quasi prevalenza dei monarchici nelle file democristiane, poi la Curia vaticana, poi la Commissione alleata di controllo, il cosiddetto ammiraglio Stone.
Può valer la pena che io ricordi che nell'estate del '45 il nunzio apostolico mi aveva portato una cortese comunicazione papale che esprimeva il desiderio di buoni rapporti con il mio governo proprio in relazione ai suoi legami con la lotta di liberazione. Poiché mi chiedeva quali atti avrebbero potuto dimostrarmi questa benevolenza dovetti esprimergli il desiderio che fossero allontanate da Milano due personalità, particolarmente odiate dagli antifascisti. Uno era padre Gemelli, l'altro il cardinale Schuster. Le risposte furono diplomaticamente evasive. Poi si aggiunse qualche altro episodio. Ed io fui classificata tra gli anticlericali incomodi.
Le relazioni con la Commissione alleata erano andate peggiorando. Avevamo con alcuni funzionari della Commissione cordiali rapporti: al leale buon volere di alcuni di essi dovetti rifornimenti salvatori di grano e di carbone. Ma l'ente teneva a fare sentire le condizioni di armistizio che ci ingabbiavano. Fu pubblicato solo allora il testo del cosiddetto "armistizio lungo" di Cassibile: un bruttissimo capitolato di umiliazioni e penali, nel quale si rispecchiava lo spirito sciagurato della "resa senza condizioni," frutto della cecità testarda di Churchill e della debolezza di Roosevelt. Era intervenuto poi il cosiddetto "armistizio corto" negoziato dal più saggio Mac Farlane con Badoglio. Ma ogni poco ora si minacciava di richiamare in vigore qualcuna delle clausole del "lungo" ed io ero obbligato nelle conferenze stampa che indicevo quasi settimanalmente per tenere i contatti tra governo ed opinione pubblica (De Gasperi le abolì) a frequenti proteste contro l'applicazione fiscale dell'armistizio, le piccole vessazioni, i favori ai monopoli americani, le promesse non mantenute. Mi dispiaceva fortemente il rinvio del passaggio alla amministrazione italiana delle molte province settentrionali rimaste sotto la giurisdizione militare alleata.
Successe a questo proposito che la normalizzazione del regime di queste province, comprese quelle al confine giuliano, inopinatamente rinviata ed in parte negata al governo Parri, dopo le mie dimissioni venne prontamente concessa, a far data dal 1° gennaio 1946, al governo De Gasperi. Un agreement, un coccolezzo. Non potei non pensare che Stone avesse dato il suo benestare al progettato colpo di mano liberale. Non parlavo allora di congiura. Cinque giovani liberali formavano il gruppo d'azione dei cospiratori. Avevo con quasi tutti rapporti cordiali. Coi maggiorenti, come Carandini e Brosio, rapporti di amicizia. Non mancarono perciò i giovani di avvertirmi della loro decisa opposizione al governo e della volontà di portarla ad uno sbocco. Eravamo già a novembre. Facevano un casus belli delle usurpazioni di potere dei CLN del Nord, anche se non mancavano alle loro requisitorie altre ragioni a me ben note di attrito. Avevo preso forse un poco troppo leggermente il loro cartello di sfida. E da parecchie parti ora mi avvertivano che non mi illudessi sui propositi reali e finali dei congiurati. Credetti mio dovere dar prova del maggior spirito di moderazione e conciliazione nei limiti consentiti dalla dignità. Tentai in vari incontri di persuadere questi avversari con mille ed una buona ragione, parendomi inverosimile non si potesse giungere ad un accordo, da comunicare poi ufficialmente al consiglio dei ministri. Ma quelli restavano irremovibili, più duri di testa di me; Brosio, vicepresidente del Consiglio, si stringeva nelle spalle, ed un ultimo incontro, in casa di Carandini, si concluse con molte dichiarazioni di stima per me, ed un netto pregiudiziale rifiuto di trattare. Non ricordo quanti giorni dopo Brosio comunicò al consiglio la decisione del Partito liberale di ritirarsi dalla coalizione di governo. La motivazione mi parve corretta e stentata. Io feci la storia delle mancate trattative e delle mie proposte di soluzione. Togliatti protestò vivamente, e protestò anche Nenni. Mi pare che De Gasperi dicesse che non c'era che prender atto del ritiro. Io conservavo la calma di fuori, ma dentro ribollivo. Con tutto quello che faceva supporre di preparazione, di complicità e di intrigo, con questi pretesti che servivano allo sgambetto fraudolento, questo diventava un colpo di mano. E la prima reazione fu quella di resistere, ed erano molti i consigli in questo senso. Ma condizione del resistere era un appoggio deciso dei due partiti di sinistra. Proposi di surrogare al governo il partito dei liberali con una o qualche personalità di indiscutibile prestigio di quell'indirizzo. Invece di un governo a sei, un governo a cinque e mezzo.
Appena nota, la mia intenzione sollevò a destra un coro furibondo d'invettive di una violenza intimidatrice che sdegnò me, ma non mancò di impressionare comunisti e socialisti. De Gasperi taceva e tacevano i democristiani, soddisfatti che i liberali crociani — notoriamente laicisti — si battessero per la loro causa. C'era la Consulta: volevo chiedere a Sforza — legato a De Gasperi, non a me — di convocarla di urgenza per spiegarmi con questi compagni dell'antifascismo. Nenni, Togliatti, ed i colleghi furono fortemente contrari: teniamo questi pasticci tra di noi, non turbiamo l'opinione pubblica. Fui debole e mi rassegnai. Me ne pento ancora adesso. Ed era chiaro che io, per loro, dovevo stare al gioco politico. Se uno dei componenti del quadripartito o dell'esapartito si ritira, il capo del governo deve dare le dimissioni: io non sono, anche adesso, di questo parere. Ma allora mi trovavo nella crudele situazione dell'ingenuo novellino che prende sul tragico un normale avvicendamento, e sembra ne faccia un caso personale. Mi parve che neppure Nenni e Togliatti, i più qualificati per capire la mia posizione, intendessero che io portavo sulle spalle un mandato che non era di partito, era di combattenti vivi e morti che avevano creduto, e da questa folla di visi e di ombre veniva una sola domanda: valeva la pena? Ed io, ingenuissimo, mi attribuivo il dovere di una giusta risposta ottenendo che fossero i partigiani a trattare la pace e ad aprire la porta alla Costituente.
L'antifascismo, la Resistenza, la guerra di liberazione eran cose lontane, passate agli archivi. La politica seguitava nella sua strada e nel suo gioco di fare e disfare i governi. Non tollerava gli ingenui. Li capivano i combattenti e gli operai con le numerose azioni di protesta organizzate in ogni parte d'Italia. Non è questione di Parri: questo era il governo della Resistenza, e voi, a Roma, offendete quelli che hanno creduto e combattuto per questo ideale. Comunisti e socialisti le lasciarono cadere. Gli oppositori scrissero che le avevo organizzate io.
Sentiva profondamente l'offesa il Partito d'azione, al di sopra delle interne divergenze ideologiche e teologiche. Era uno scacco che ne scopriva di più la debolezza numerica di partito d'intellettuali, sgradito al Partito comunista come un molesto impedimento alla semplificazione del gioco politico, sgradito al Partito socialista, che ne temeva la concorrenza, anche elettorale, sgradito più che mai ai liberali. La caduta del governo Parri è un poco il prologo della caduta del PdA.
Parri, isolato, finì per dar le dimissioni. Si tenne in debito di riunire congiuntamente il CLN nazionale ed il CLNAI dal quale aveva avuto la designazione. Gli interessi e gli obiettivi dei partiti dominavano ormai anche i loro discorsi. Poi sempre per non farsi chiudere la bocca, sempre per farsi sentire e capire dalla gente, volle convocare una grande conferenza stampa, con speciale invito alla stampa estera. Ne parla Carlo Levi ne L’Orologio: non un racconto, una crudele e deformante pittura. E discorrendo delle cose fatte e rimaste da fare, mi pareva di veder avanzare dal fondo della sala sprezzante e ghignante l'immenso esercito parafascista, l'obeso ventre della storia d'Italia, che aveva vinto, mi aveva vinto. E dissi che moderate politiche si potevano accettare, ma una sola doveva essere intransigentemente respinta, quella che apriva la porta al fascismo. Avevo l'amaro in bocca. Aggiunsi che il colpo di stato che mi estrometteva dal governo apriva la strada al riflusso dell'Italia fascista. Avevo esagerato: dovevo dire colpo di mano.
Era il 24 novembre 1945.
È venuta la Costituzione. Un poco per volta, un pezzo per volta, una lotta dopo l'altra gli italiani l'hanno scoperta. Cessata la persecuzione partigiana, che io presentivo nel mio congedo, si è scoperto che sulla copertina di questo libro c'è l'impronta del sangue della lotta di liberazione e dei suoi martiri. E, un passo dopo l'altro, nel repertorio degli oratori ufficiali si è inserito lo slogan: la Resistenza come matrice della Costituzione. È giusto. Potrebbe essere una vendetta, se non è retorica.
Da "L'Astrolabio" del gennaio 1972, ripubblicato in Ferruccio Parri, Scritti 1915-1975, Feltrinelli 1976.
Nessun commento:
Posta un commento