Arthur Schnitzler |
Alcune avvisaglie in questo senso si erano già notate un anno fa — in un terreno per la verità non specificatamente letterario, anzi più vicino alle arti visive — con il dibattito suscitato dal bel numero della Rivista di Estetica su «Arte e Metropoli». Confluito e dispersosi poi nei meandri serpentini del discorso sul «postmoderno», il tema sembra riemergere ora in tutt'altra area e in tutt'altra forma, e approdare ai lidi della letteratura.
Che reazioni ha espresso la letteratura di fronte alla progressiva urbanizzazione e tecnologizzazione del pianeta? E' questo, all'incirca, quanto si sono chiesti recentemente a Palermo i partecipanti al convegno Letteratura e civilizzazione, organizzato da Aldo Gargani e Natale Tedesco: dove si è tentato, per l'appunto, di investigare i modelli, gli atteggiamenti e le modalità stilistiche con i quali la letteratura contemporanea ha reagito alle strutture materiali e culturali sempre più complesse della civiltà tecnologica. E un quesito per alcuni versi contiguo verrà posto oggi a Trieste (dove i convegni si distinguono ormai per la scelta sensibile dei temi: l'anno scorso a quest'epoca vi si svolgeva quello sul «nichilismo»), al convegno sul tema Il ruolo della scienza nella letteratura austriaca nel secolo ventesimo, organizzato da Claudio Magris e dal consolato austriaco di Milano. Ci si interrogherà cioè sulle reazioni della letteratura di fronte alla profonda penetrazione in ogni ambito delle scienze esatte e specialistiche.
I dubbi di Broch
Già, perché quella semplice e antica «ingenuità del narrare» di cui si diceva all'inizio, quella che nel caos complesso e eterogeneo della metropoli è andata disperdendosi, tanto più si disperde nel proliferare sterminato dei saperi specialistici che all'avvento di quella metropoli si accompagnano. Ed è qui, allora, che ci si rivolge ancora una volta all'Austria, a quel curioso e composito paese dove in uno spazio relativamente ristretto una grande letteratura (quella di Kafka, Musil, Broch o Schnitzler) si è trovata a convivere gomito a gomito con un grande sviluppo delle scienze naturali ed umane (da Boltzmann a Freud, da Mach alla psicolinguistica, dal circolo di Vienna a Wittgenstein). E dove si assisteva a scambi o travasi non da poco fra scienza e letteratura, e poteva anzi capitare che complicati modelli fisici e matematici si traducessero in teorie letterarie. O anche magari — perché no — che teorie poetiche e letterarie si traducessero talvolta in modelli matematici!
Certo, i rapporti fra scienza e letteratura non sono stati sempre dei più semplici. Infatti la letteratura, un tempo signora indiscussa nel morbido terreno della conoscenza degli uomini e dell'anima, si è vista minacciata dal vorticoso sviluppo di quelle scienze umane — psicologia o sociologia, linguistica o psicoanalisi — che hanno invaso i suoi domini. E ha reagito nei modi più svariati: talvolta accentuando all'estremo una propria idilliaca separatezza, talaltra cercando, al contrario, di far propri questi nuovi saperi, talaltra ancora dichiarando sfiduciata la propria inadeguatezza a conoscere e dominare un mondo diventato così problematico e complesso.
E' questo il caso, ad esempio, di Hermann Broch, scienziato e filosofo oltre che scrittore, che visse nel modo più tormentoso la tensione tra scienza e letteratura. Roso da un dubbio persistente circa le capacità conoscitive della letteratura di fronte alla complicata modernità, tentò in un primo momento di dilatare i confini della letteratura riassorbendovi i saperi scientifici e legittimandola di fronte ad essi come una «conoscenza totale», di contro alla settorialità specialistica di quelli. Ma poi, dopo avere sperimentato romanzi come I Sonnambuli, dove la narrazione qua e là si interrompeva infarcendosi di interi trattati teorici, perse fiducia nella letteratura e se ne allontanò sempre più, dandosi a studi sulla psicologia delle masse e sulla teoria della scienza: conoscenze, queste, certamente «parziali», ma che gli sembravano più reali.
Si dà però anche il caso opposto. Quello della letteratura che si dilata, sì, verso la scienza, assorbendone metodi e contenuti; ma che, conscia della crisi da cui sono attraversate la stessa scienza e la filosofia, ormai dubbiose verso le «verità» assolute e universali dei propri sistemi teorici, esce da questa trasmutazione rafforzata e sicura del proprio ruolo conoscitivo. Perché, come si chiesero alcuni scrittori, se i filosofi o gli scienziati dicono il «pensiero» universale, e il narratore ingenuo dice l'«uomo», chi mai dirà l'«uomo che pensa», il pensiero cioè nell’incerto e nebbioso processo del suo formarsi, quando non si è ancora staccato dalla singola effimera esistenza, dall'uomo cioè che lo pensa? Così, per risolvere questo quesito, si escogitarono via via forme di letteratura e forme di romanzo «saggistiche», che riassorbissero anche il pensiero scientifico e filosofico, ma che, togliendolo dalla sua supponente pretesa di certezza, lo calassero nella precarietà incerta e mutevole dell'esistenza.
Così nacque, ad esempio, L'uomo senza qualità, romanzo saggistico dove narrazione e riflessione intimamente si incorporano e che costituisce uno dei tentativi più interessanti di rispondere alle esigenze incrociate tanto del romanziere moderno — per il quale l'antica ingenuità del narrare non è più sufficiente di fronte allo sviluppo del pensiero — quanto del pensatore moderno che, tramontate le certezze assolute e universali dei suoi padri, cerca un pensiero più relativo e contingente, ma che aderisca al particolare caldo ed effimero dell'esistenza. Qui allora la letteratura vive la sua grande rivincita, perché essa, nient' affatto inferiore alla scienza, diventa anzi il luogo dove può finalmente venir detta l'ombra rimossa della stessa scienza, cioè quei significati filosofici e scientifici che i linguaggi delle scienze non possono dire, soggiacendo, per la loro intrinseca natura di «saperi forti», alla falsificazione del potere, all'irrigidimento ideologico, alla chiusura nella sistematicità.
Arthur Schnitzler contro la psicoanalisi
Analoga è la rivincita che la letteratura si prende sulla sua rivale più temibile anche se più seducente, la psicoanalisi, quella che osava spingere i suoi affilati strumenti teorici fin dentro il terreno morbido e oscuro del profondo, in cui un tempo spalancavano sprazzi di luce soltanto le intuizioni e le metafore dei poeti. La letteratura, talvolta spiazzata da questa invasione, o attratta e spinta ad attingere anch'essa a quegli strumenti, manifesta in fondo però la certezza un po' sufficiente che soltanto nel suo luogo il pullulare sotterraneo possa essere detto senza soggiacere al riduttivismo dell'ortodossia, da cui neppure la psicoanalisi andava indenne.
E' questa l'intuizione anche dello scrittore austriaco che viene più spesso affiancato a Freud, quello Schnitzler che, psichiatra a sua volta, in novelle di sottile scavo psicologico già nel 1900 smontavai meccanismi profondi che presiedono alla formazione dei gesti o del linguaggio, degli atti mancati o dei lapsus (Il sottotenente Gusti, La signorina Elsa). Ma mentre Freud dichiarava verso di lui una sorta di riverente «timore del sosia», Schnitzler avanzava invece critiche audaci alla psicoanalisi per la sua ortodossia o per l'eccessiva codificazione della sua simbologia onirica, e si spingeva ad attaccarne capisaldi come la definizione topografica di inconscio o il complesso di Edipo.
Certo, il rapporto letteratura-psicoanalisi è anche di quelli che più evidenziano scambi e travasi assai stretti e segreti fra scienza e letteratura. Da una parte, infatti, Freud scriveva storie che qualcuno ha proposto di leggere come romanzi (Dora, L'uomo dei lupi); dall'altra i romanzi si arricchivano e addensavano di affilati scavi analitici. Il raccontare in analisi e il raccontare letterario apparivano sempre più spesso ramificazioni dissimili di esigenze in verità assai simili. E se l'analisi veniva dichiarata da Freud «interminabile», anche i romanzi venivano lasciati sempre più spesso «opera aperta», incompiuti e sterminati.
“la Repubblica”, 1981
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