Uno dei più grandi poeti che la civiltà occidentale abbia prodotto, Jean Racine, scrisse tutti i suoi capolavori - da Andromaque» a Phèdre, da Berenice a Athalie - usando una lingua fatta di pochissime centinaia di vocaboli; ed è davvero difficile credere che si sia mai posto il problema di trovare un sinonimo più calzante, un termine più appropriato o prezioso, dal momento che a una sola parola - «flamme» o «désordre», «fatal» o «funeste» - riusciva a dare, per forza di immaginazione psicologica e morale, le più varie e sottili sfumature...
Racine è, probabilmente, il «campione», il rappresentante più tipico e, insieme, il caso estremo di una vasta famiglia di scrittori, quelli che fondano, più o meno coscientemente, la forza espressiva del proprio linguaggio sulla semplicità e rarefazione, insomma sulla «povertà» della lingua; per fare un esempio italiano, e vicino a noi nel tempo, si pensi alla poesia di Sandro Penna. All'estremo opposto ci sono quelli che chiamerei gli scrittori dell'abbondanza, i quali affidano la propria espressività non solo alla ricchezza, ma anche alla singolarità e, spesso, alla stravagante ricercatezza del lessico: in Francia, per fare un solo esempio, Victor Hugo; in Italia, i grandi prosatori barocchi, come Daniello Bartoli e Giacomo Lubrano e - naturalmente - Gabriele D'Annunzio; ma anche alcuni dei maggiori prosatori del nostro secolo, da Carlo Emilio Gadda e Tommaso Landolfi fino a Giorgio Manganelli.
È evidente che a queste due categorie contrapposte (fra le quali si stende un'infinita varietà di atteggiamenti intermedi e meno facilmente caratterizzabili) corrispondono, almeno idealmente, due atteggiamenti diversissimi nei riguardi di quella stratificata memoria della lingua, di quegli sterminati repertori - al tempo stesso ordinati e magmatici, asettici e inquietanti - di parole vive e parole morte, che sono i dizionari. Gli scrittori della povertà ricorreranno ad essi raramente, per indispensabili verifiche; gli scrittori dell'abbondanza ne trarranno invece alimento o addirittura ispirazione. È noto che D'Annunzio compilava lunghi elenchi di parole estremamente specifiche o desuete che colpivano la sua immaginazione e che proprio da tali elenchi, non di rado, sono nate le sue lussuose metafore sonore. Non meno emblematica, anche se di tutt'altro segno, la beffarda impresa compiuta da Landolfi quando scrisse un intero racconto con parole apparentemente incomprensibili e che tutti credettero inventate da lui, finché l'autore non rivelò che ciascuna di esse figurava, regolarmente attestata e spiegata, nel Tommaseo-Bellini.
Insomma, non è proprio possibile dire, in generale, quale sia il rapporto fra scrittori e dizionari; mentre è possibile (e anche illuminante) dirlo a proposito di ogni singolo scrittore. Per quanto mi riguarda, e per il poco che l'esempio può valere, mi sono accorto che, da qualche anno, uso i dizionari assai più di una volta. Perdita di ispirazione primaria o reazione inconscia all'omologazione, alla burocratizzazione, all'appiattimento della lingua italiana? Continuo, comunque, a fare una distinzione fondamentale fra scrittura creativa (che penso debba prevalentemente usare - per darle sempre nuove tensioni e ambiguità, cioè più senso - la lingua comune, la «lingua della tribù», bella o brutta che sia) e scrittura critica (che penso debba essere, invece, più suggestiva, impressionante e mimetica, e basarsi dunque su una lingua più articolata e varia, vale a dire più «da dizionario»).
Ma non faccio la minima fatica a immaginare che questa distinzione possa sembrare ad altri paradossale. Sarebbe solo un'altra prova che davvero, in materia, non esistono regole valide per tutti. O forse una soltanto: tenere sempre dei buoni dizionari a portata di mano, per usarli e persino per non usarli.
Postilla
Il testo è ripreso da un ritaglio de “L’Europeo”, che ho conservato senza data. Da alcuni indizi si può congetturare pubblicato nel 1980. (S.L.L.)
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