12.9.11

1943. Il 25 luglio a Milano (di Pietro Ingrao)


Pietro Ingrao
“La rivista del manifesto”, nata sul finire del 1999, fu diretta da Lucio Magri fino all'improvvida chiusura, avvenuta per difficoltà poco finanziarie e molto politiche alla fine del 2004. Il numero 10  (ottobre 2000) riservava un ampio dossier a “l’Unità”, il quotidiano che era stato del Pci e stava al tempo attraversando una crisi più grave del solito.
Uno degli articoli, dal titolo Un giornale particolare, era opera di Pietro Ingrao: una sorta di rievocazione  che si apre con il 25 luglio di Milano. Si tratta di una testimonianza storica singolare e importante oltre ad essere una pagina di buona letteratura. La ripropongo in questo blog, anche perché tra i suoi protagonisti c'è un comunista siciliano di grande valore, un uomo con cui ho avuto la fortuna di collaborare e discutere: Salvatore (Totò) Di Benedetto (S.L.L.)

Salvatore Di Benedetto
Il primo incontro diretto con l'Unità io l'ebbi il pomeriggio del 26 luglio a Milano. La sera prima, a Roma, Mussolini era stato licenziato dal re. Vivevo clandestino a Milano, proveniente dalle falde della Presila, dove ero stato nascosto per tutta la primavera, braccato dalla polizia. A giugno era venuta la chiamata a Milano, ed ero in procinto di essere inviato a svolgere lavoro clandestino per il Partito comunista nell'agro campano, non molto lontano dal mio paese natio.
Intanto avevo superato una sorta d'esame da parte di un dirigente del gruppo comunista che ormai operava in Italia settentrionale: Ilio Bosi. C'era stato un incontro - naturalmente sempre usando nomi cifrati - sulla panchina di una grande piazza alberata milanese. Bosi, molto sobrio, con fare paterno, mi aveva fatto domande di rito: sulla mia storia, sulle vicende di gruppo comunista romano e non ricordo che altro. Seppi poi, dall'amico e compagno Salvatore Di Benedetto, che l'esame era stato superato.
Ero in attesa della partenza. Abitavo naturalmente clandestino, in una casa di Corso di Portanuova insieme con due compagni operai siciliani, i fratelli Impiduglia che mi ospitavano e mi difendevano dalla polizia, e una adorabile ragazza lombarda, unita al maggiore dei due fratelli, di nome Santina, che mi aiutò e protesse nei miei soggiorni segreti a Milano, con una grazia e un coraggio semplice, che non dava nemmeno spiegazione di sé.
La notte del 25 luglio era afosa. Nella casa dormivamo tutti un sonno pesante, quando d'improvviso e inatteso entrò Salvatore Di Benedetto, che era un po' il nostro capocellula e insieme quasi un fratello: sbatté le porte e si precipitò a gridare a squarciagola alla finestra: A morte Mussolini! Saltammo dal letto senza capire. Poi, infilati di furia i pantaloni, ci precipitammo con Di Benedetto nelle strade urlando: A morte il duce, abbasso il fascismo - gridi che risuonavano stranamente nella quiete afosa della notte. Ricordo figure affacciarsi dalle finestre, a chiedere: che c'è, che succede? Poi finimmo nel vortice di Porta Venezia dove una folla impazzita sciamava ed urlava. Più avanti abbracciammo esultanti Elio Vittorini.
E fu così tutta la notte, in una scia di gente tumultuante davanti alle sedi fasciste, da cui cadevano e finivano in falò carte, sedie, armadi, gagliardetti, come una scia di roghi.
Tutto s'acquietò con l'imbiancarsi del cielo. La gente rifluì nelle case e negli uffici. Io finii con Vittorini e Di Benedetto nella sede della casa editrice Bompiani, dove Elio aveva il suo tavolo di lavoro. Da lì partì la telefonata che fissava per il pomeriggio un camioncino a Porta Venezia. Fu iniziativa di Vittorini oppure di Salvatore Di Benedetto, il compagno siciliano che aveva i fili del contatto con il centro clandestino del partito a Milano? Non so dirlo. Circa alle 11 del mattino mi ritrovai stremato nella casa di corso di Portanuova. E fu un brevissimo sonno di piombo.
Alle due ero di nuovo in un enorme corteo senza nome, che sfilò dinanzi a San Vittore chiedendo la liberazione dei prigionieri politici. Fu quella la prima rivendicazione, e non solo per struggente desiderio umano, ma perché fossero liberi quelli che dovevano guidarci in quella transizione così invocata, ancora così oscura, e - sin dai primi istanti - tanto ambigua. Nessuno poteva dimenticare che - incarcerato Mussolini - quasi tutta l'Italia era ancora nelle mani dei tedeschi.
Poi dal carcere di San Vittore il corteo sfociò ancora a Porta Venezia, e dilagò attorno al camioncino affittato da Bompiani. Riuscii ad arrampicarmi sul tetto dell'auto, dove ci strappavamo da una mano all'altra i microfoni: comunisti, socialisti, anarchici, trotzkisti, repubblicani, e quanti altri non so dire.
Conquistato il microfono riuscii a fare un brandello di comizio, che chiedeva la pace subito. L'indomani mattina il “Corriere della Sera” scrisse che in Piazza del Duomo aveva parlato "l'operaio" Pietro Ingrao. E quell'informazione sbagliata dette una prima notizia alla mia famiglia che da mesi di me non sapeva più nulla.

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