23.9.11

La luce di Roma. Rutilio Namaziano e il fascino delle rovine (di R. Andreotti)

Recensendo su “alias” del 30 aprile 2011 una riedizione del De reditu di Rutilio Namaziano, il poema più significativo della tarda antichità, a mio avviso un vero capolavoro, Roberto Andreotti la confronta con la precedente edizione einaudiana (1992), che ha in comune con la nuova (Nino Aragno Editore) un saggio del maggiore specialista rutiliano vivente, Alessandro Fo. Andreotti verifica quella e altre interpretazioni, in un breve e succoso saggio su quel poeta trascurato ma importante. Ne “posto” qui uno stralcio. (S.L.L.) 
Con che equipaggiamento affrontare il mondo di un poeta latino del V secolo, così poco scolastico già quando eravamo ragazzi noi, tra Orienti e Occidenti, invasioni barbariche e fine della Storia, Augusti bambini, città di Dio e resipiscenze pagane?  
Confesso di essermi armato molto alla leggera, anteponendo per una volta a Gibbon, Curtius e ai maestri moderni (Marrou, Mazzarino, Peter Brown…) la piccola sintesi che fa da sfondo alla Galla Placidia pubblicata da Lidia Storoni Mazzolani a metà degli anni settanta: tenere bene insieme le fonti antiche e la bibliografia scientifica senza mai cadere in psicologismi biografici, per un ripasso alla svelta della grande «crisi» culminata nel 410 col Sacco di Roma. La coltellata dei Visigoti al cuore dell’impero era stata preceduta dal lungo assedio di Alarico e da una rete ambigua di relazioni ‘diplomatiche’ con Stilicone, il vandalo romanizzato divenuto comandante supremo delle forze armate e ‘tutore’ di Onorio e Arcadio. Dopo di che, i Goti rimontano la penisola italiana (412) diretti in Provenza, invadono la Gallia Narbonese e l’Aquitania, prendono Tolosa e Bordeaux, prima di espandere nelle Spagne la lunga scia di fuoco e demolizioni.
È a séguito di questi avvenimenti che Claudio Rutilio Namaziano, un esponente della aristocrazia latifondista galla affermatosi brillantemente come funzionario a Roma – di cui infine diviene praefectus (il ‘sindaco’) –, decide a malincuore di lasciare la capitale per fare ritorno nella Narbonese a restaurare i possedimenti danneggiati dall’onda visigota. De reditu suo è il ‘diario’ in versi – distici elegiaci raffinatissimi, all’alessandrina – di quel viaggio ‘Roma adieu’ che tappa dopo tappa lo riporta sino alla patria d’origine nei pressi di Tolosa; viaggio realizzato per mare, lungo un’Italia ancora ferita, probabilmente nel 417 (o 415), che ora l’editore Nino Aragno pubblica con testo originale a fronte in una nuova, elegante traduzione a cura del grecista Andrea Rodighiero .
Qual è, in sintesi, la cifra psicologica di questo poemetto odeporico (odeporico = “che ricorda un viaggio” n. S.L.L.), così tenacemente aggrappato al mito di Roma come sistema unificante («di popoli diversi hai fatto un’unica patria»), i cui valori civili, esistenziali e letterari vengono sempre filtrati dal canone classicista? (Venere genitrice di Enea è ancora ‘lucreziana’, Marte è sempre il padre di Romolo e Remo, il destino di Roma è quello preconizzato da Anchise nel VI libro dell’Eneide). Cos’è che rende ‘umanistiche’ persino le rovine, e struggente la memoria degli amici vivi e morti, i quali finiscono, alla lettura, in un ideale indice dei nomi accanto a Cincinnato e Attilio Regolo, i sobri eroi di «frugalità e modestia» della remota età repubblicana?
È stato soprattutto Alessandro Fo a insistere sulla «luce di statue» sotto cui Rutilio cercherebbe via via di strappare all’oblio cose, luoghi, persone, città, giorni felici – oltre che il suo stesso poema. Così questo viaggio à rebours è, in fondo, un protratto distacco dal ‘codice’ millenario di Roma («un oblio sciagurato potrà colpire il sole / prima che la tua gloria svanisca dal mio cuore»), squadernato sinotticamente mediante il reticolo letterario delle allusioni: sottile e feroce – una per tutte – quella che paragona la «setta» dei monaci eremiti della Gorgona ai compagni di Ulisse avvelenati da Circe («Là si mutavano i corpi, qui si trasformano gli animi»).
Cinquant’anni fa Italo Lana scriveva che rispetto «a una qualunque pagina di un autore cristiano del tempo» – dove si sente pulsare la vita «attiva» –, il mondo di Rutilio appare «fermo e stagnante»; questa visione asfittica del Tardoantico pagano rispetto al florido cristianesimo è stata parzialmente riscattata da Fo, che anzi nell’edizione del Ritorno per Einaudi (1992) non ha avuto pudori nell’abbinare alla dottrina del filologo un pur «vigile sentimento della nostalgia» – parole sue –, rivendicando quasi i diritti culturali di un’epoca ammaliante proprio perché «alla fine»: quel V secolo sul cui «sfondo» è possibile vedere «agitarsi conflitti iperbolici, devastazioni e fuochi, rivoluzioni interiori, addii». Uno specchio per il Novecento agli sgoccioli? … Basterebbe la Stimmung con cui si apriva l’edizione einaudiana: «Con Rutilio si accosta una stagione poetica oggi quasi interamente dimenticata, quella tardolatina. I pochi che al di fuori della cerchia degli studiosi ne abbiano notizia conoscono un modo principale di avvicinarvisi, ed è sognarla. La sua posizione nell’arco della storia invita sempre a sfogliarne i reperti come si sfoglia un’opera delicata, tranquillamente seduti in una veranda, al sole particolare del tramonto…». È un po’ la patologia che adesso Fo chiama «decadimentismo» in quest’edizione Aragno (chiara emanazione dell’altra), alla quale egli premette stavolta un fluviale saggio soprattutto per censire, nel corso di un inseguimento che ha del mostruoso, quasi un ventennio di ‘effetto-Rutilio’…
Ma veniamo decisamente al Ritorno originale: più esilio che nóstos, scrisse ancora Fo. Difatti una strategia di citazioni letterarie, oltre alla scelta stessa del metro, svela che Rutilio si modella allusivamente su Ovidio, e l’Ovidio ça va sans dire esule (sia pur per tutt’altre ragioni) sul Mar Nero fra genti barbare, circa quattro secoli prima. Anche senza i fulmini di Augusto il congedo ‘volontario’ di Rutilio appare abbastanza straziante, e girato al rallentatore («È bello voltarsi ancora
spesso alla città vicina, / e seguire, con lo sguardo che viene meno, la linea dei monti» (I, 189-90); così dopo il makarismós («beato / chi ha meritato di nascere su questo suolo felice…») e i «molti baci» impressi «alle porte che dobbiamo lasciare», c’è tutto il tempo per un lungo e celebre «Inno a Roma» dea fra gli dèi, il cui impianto retorico ricalcherebbe secondo Doblhofer – autore di un’edizione-spartiacque uscita negli anni settanta – il discorso dei magistrati in missione al momento della partenza, coi voti per la città e per l’imminente viaggio. In attesa di imbarcarsi a Fiumicino Rutilio ode e ‘vede’ la città dai templi scintillanti, che «disorientano gli sguardi», menzionati da Gibbon: il chiasso dei giochi e le acclamazioni dei teatri; uno speciale alone luminoso... Come scrisse il Norden parafrasando uno dei passi più dibattuti, «Ulisse aveva desiderato riconoscere la patria dal fumo che saliva da essa: Rutilio riconosce Roma dallo splendore diffuso sui sette colli».
Poi quale viaggio è riservato al lettore una volta che il distacco si è finalmente consumato tra lacrime e rimpianti? Impraticabile la via terrestre messa a ferro e fuoco dai Goti, fila a tappe la costa del Lazio e dell’Etruria, punteggiata da una serie di località e approdi talvolta fatti scorrere, dalla piccola imbarcazione su cui la pattuglia di Rutilio naviga, come un trasparente cinematografico: dopo Ostia arriva Centocelle con la sosta alle Terme e il racconto eziologico (eziologico = “sulle cause, sulle origini”, n. d.S.L.L) ‘alla greca’; quindi Porto Ercole; l’approdo di fortuna alle foci dell’Ombrone, e le piccole tende per la notte realizzate «posando in piedi i remi»; l’Isola d’Elba con la celebre digressione moralista ‘ferro vs oro’; la cupa Falesia dove esplode un’invettiva antigiudaica; Populonia; l’isola di Capraia resa «squallida» dalla presenza dei monaci (la prima di due tirate anti-cristiane di stampo ‘illuminista’); Volterra; Pisa; Villa Triturrita con la battuta di caccia… Il racconto del viaggio per noi si interrompe a Luni, all’inizio del II Libro quasi del tutto perduto…
Diversi passi del De reditu sono stati ampiamente frequentati in quanto documenti per la storia della
mentalità e delle religioni, come la citata scarica ‘giovenalesca’ provocata da un «lagnoso» locandiere ebreo; o quelle contro il monachesimo cristiano, in cui Rutilio si arrocca in una difesa ‘razionalista’ della cultura pagana (per queste osservazioni profane – ricorda il Gibbon in una nota – lui e i suoi «complici» sono definiti «rabiosi canes diaboli» da Caspar Barth, nell’edizione del 1623). Ma forse si deve essere ancora una volta d’accordo con il Fo, tra le parti più attraenti del poema vanno annoverate quelle ‘rovinistiche’ – quasi preromantiche –, un rullo di istantanee dal
Tardoantico, con epicedio sul destino delle cose come colonna sonora: « Non si possono più riconoscere i monumenti del passato: / mura imponenti il tempo vorace ha consunto. / Restano solo tracce di pareti interrotte, / tetti sepolti giacciono sotto ruderi vasti. / Non indigniamoci che i corpi mortali si dissolvano; / valgano gli esempi: anche le città muoiono» (I, 409-14)…

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