8.9.11

Insegnare letteratura nei licei (di Niccolò Scaffai)

Sono ormai parecchi gli anni che non esercito il mestiere d’insegnante di belle lettere e solo di rado ne sento nostalgia. Ciò nonostante l’articolo che segue, da “alias” del 30 luglio 2011, sull’insegnamento della letteratura italiana nei Licei mi ha coinvolto, perché, a parte il titolo corrivo fino all’indecenza (Letteratura glocal per ragazzi trasversali), è ben costruito e pone domande serie: come sono fatti oggi i ragazzi, come funzionano le loro teste, quali sono i compiti degli insegnanti, come si fanno e si potrebbero fare i manuali e le antologie del nuovo millennio.
Vorrei poter sfogliare il manuale-antologia che è al centro dell’attenzione, specie nella parte moderna che mi pare la più discussa dal recensore, ma ai pensionati non lo danno in saggio e i prezzi non sono alla portata. Chiederò a qualche mestierante in attività, a qualche più giovane ex collega di prestarmi uno o due volumi per qualche giorno. Sono davvero incuriosito. (S.L.L.)

La scuola è uno dei pochi ambiti in cui l’esperienza trova ancora materia per nutrirsi e in cui l’impegno, civile prima che culturale, resta necessario.
Lo sanno gli scrittori, a maggior ragione quelli che sono (o sono stati) anche insegnanti e che scelgono la scuola come sfondo o come oggetto di narrazione. Per la fiction, tralasciando gli autori più corrivi, basta pensare ai ‘classici’ di Starnone o, di altro tono, a Il sopravvissuto (2005) di Antonio Scurati. Per la non fiction – ma talvolta è meglio usare la categoria di autofiction – valgono almeno gli esempi di Silvia Dai Prà (intorno al suo recente Quelli che però è lo stesso hanno richiamato l’attenzione Claudio Giunta e, su queste pagine, Daniele Balicco) e soprattutto di Sandro Onofri, scomparso nel 1999 e oggi un po’ dimenticato. Il suo postumo Registro di classe (2000) è forse, per sobrietà e realismo tutt’altro che comico, il capolavoro del genere.
È da tempo che la letteratura ha scoperto la scuola. La novità è che al punto di vista dello studente, impegnato nella difesa o nella ricerca di una propria autonomia intellettuale e morale, tende a sostituirsi quello del docente, che ha il compito di opporsi all’omologazione cui sono esposti gli studenti, tentando di recuperare attraverso l’insegnamento valori quali l’originalità e la libertà di pensiero, un tempo ritenuti connaturati ai giovani. Può darsi che l’investimento sul personaggio-docente invece che sul personaggio-studente rifletta anche l’inceppamento della dialettica generazionale che è in atto da tempo in Italia. In ogni caso, attribuendo loro la titolarità della regola e insieme della sua trasgressione, del valore e del suo superamento, l’immaginario carica le figure di maestre e maestri, professoresse e professori di importanza e responsabilità maggiori che in passato.
Al docente che vuol essere all’altezza di quella responsabilità occorrono strumenti e questi sono innanzitutto i libri. Cioè, per l’insegnante di lettere, principalmente storie e antologie letterarie, firmate nella maggior parte dei casi da professori universitari. Il che provoca nei colleghi delle scuole un sentimento ambiguo: da un lato, la sicurezza trasmessa dal nome dello studioso accreditato; dall’altro, l’irritazione nei confronti di chi vuole insegnare un mestiere che spesso non ha mai fatto.
Forse è per questo che le antologie di maggior successo sono frutto del lavoro di un’équipe d’insegnanti o ex insegnanti, o si giovano di una lunga riflessione sul canone e sui metodi didattici: penso, tra gli altri, ai testi scolastici coordinati da Romano Luperini.
È proprio di un accademico, Luca Serianni, uno dei saggi più sensati scritti negli ultimi tempi intorno all’insegnamento: L’ora di italiano. Scuola e materie umanistiche (2010). (L’unico suo limite, comune a chi è animato dalle migliori intenzioni, è di considerare quello dell’insegnante un lavoro missionario. Meglio missionari che fannulloni, certo. Ma beata quella scuola che non ha bisogno di eroi!).
Serianni osserva che per fare accostare i ragazzi alla grande letteratura, è bene «non limitarci alla storia necessariamente angusta delle patrie lettere», contemplando nel programma tanto Shakespeare e Tolstoj (in traduzione, beninteso) quanto Tasso e Manzoni. Il fatto è che la scuola ha anche il compito di «mantenere la memoria storica di una comunità»; in particolare, la letteratura «a cui si deve la percezione di una continuità attraverso la frammentazione geopolitica così caratteristica della storia italiana, dà senso per l’appunto al nostro stare insieme, nonostante tutto».
Come conciliare questa funzione civile, legata alla difficile conservazione di un patrimonio di lingua e valori comuni in un contesto plurale e disomogeneo quale è quello italiano, con l’esigenza di superare i confini nazionali e dar conto di autori e testi di altre culture?
Tra le letterature scolastiche recenti, quella che si confronta più apertamente con il problema della doppia geografia – locale e mondiale – è probabilmente L’Europa degli scrittori. Storia, centri, testi della letteratura italiana ed europea curata da Roberto Antonelli e Maria Teresa Sapegno (La Nuova Italia, 7 voll. di cui l’ultimo integrato da un Panorama del romanzo contemporaneo).
Applicando alla formazione scolastica il paradigma storiografico di Dionisotti, già da tempo assimilato nelle storie letterarie di uso accademico, i curatori distribuiscono gli autori in base alle aree geografiche di provenienza: municipali per i primi secoli letterari (l’Arezzo di Guittone, la Siena di Cecco Angiolieri, la Roma dell’Anonimo e così via), di cui Antonelli è tra i massimi esperti; estese ai confini regionali o metropolitani per le epoche successive, in rapporto con l’evoluzione politica dell’Italia preunitaria.
Il modello si rivela particolarmente utile quando si tratta ad esempio di riconoscere le specificità linguistiche degli autori, almeno fino alla prima età moderna.
In ambito tardo-moderno e contemporaneo, il criterio geografico facilita sì la promozione di grandi dialettali come Tessa, ma talvolta ingabbia autori troppo distanti perché la parentela locale abbia valore euristico. E può obbligare a riempire gli spazi registrando voci transitorie: è il caso di Salvatore Niffoi per la sezione dedicata alla Sardegna. (Ma la verifica dei valori nell’immediata contemporaneità è sempre difficile e le ‘scommesse’ necessarie; del resto, nell’Europa degli scrittori le maggiori perplessità non dipendono tanto dalle inclusioni quanto da un certo livellamento, in termini di spazio e visibilità, tra grandi e piccoli).
Il radicamento geografico è comunque efficace per far reagire il testo e il contesto, perché evita di dare all’opera la struttura di una galleria di ritratti, poco funzionale per gli studenti di una generazione abituata alla trasversalità dei collegamenti. Qui sta uno dei punti di equilibrio più difficili: da una parte, l’opportunità di assecondare i meccanismi analogici che presiedono alle intelligenze dei giovani; dall’altra, il dovere di mantenere il filo storico in costante tensione, per impedire gli spaesamenti cronologici cui vanno incontro gli studenti.
La soluzione offerta dall’Europa degli scrittori consiste nel valorizzare il contesto storico-geografico presentandolo come un mosaico o, se vogliamo, uno schermo attivo sul quale richiamare le connessioni alla società, ai sistemi di produzione, alla storia del pensiero, alla musica e al cinema. E specialmente alle arti figurative, cui è dedicata una sezione («Il cammino dell’arte») al termine di ogni volume.
Accanto ai centri locali passano, come promette il titolo, le rotte della letteratura europea e mondiale. Rispetto ad altre opere analoghe, qui la presenza di scrittori stranieri è più varia e sistematica. L’idea è di integrare le due dimensioni geografiche, mostrando come la cultura italiana sia stata ora esportatrice, ora importatrice di materia letteraria, e come abbia condiviso fermenti e istanze maturati contemporaneamente in paesi diversi: aspetto questo che emerge per esempio nei capitoli sulla Dispersione dell’io lirico nella poesia del Novecento (da Rilke a Valéry, da Machado a Pessoa, da Eliot a Celan) e sulla Crisi della Grande Europa nel romanzo (da Conrad a Proust, da Mann a Kafka, da Joyce a Virginia Woolf), che precedono rispettivamente le sezioni su Montale e su Svevo.
È una buona lezione, che non vale solo nell’ora di italiano. Perché dove, se non a scuola, si impara che per conoscere e migliorare se stessi bisogna confrontarsi con gli altri? E che per essere liberi bisogna aprire la porta di casa?

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