13.9.11

Democrazia e telecrazia. La storia disseminata (di Giovanni De Luna)

Lo storico Giovanni De Luna, in questa recensione di Democrazia e populismo (John Lukacs, Longanesi, 2006), pubblicata su Tuttolibri de “La Stampa” il 16 settembre 2006, rifiuta la “tesi estrema” sostenuta dell’autore del volume, ma ne assume le sottolineatura del peso dei “media” nella costruzione e nel mantenimento del potere e ne estrae alcune implicazioni fondamentali per gli studiosi di storia. (S.L.L.) 
Marx sbagliava a vedere nell'homo oeconomicus il protagonista della storia del mondo quando diventava sempre più chiaro «che la storia è fatta dagli atteggiamenti mentali (nonchè dai desideri, dalle paure, dagli odi) delle grandi masse umane, e che questo è il fondamento della politica». Insomma, a governare il mondo non sarebbe l'accumulazione del denaro e delle merci, ma l'accumulazione delle opinioni. E' una tesi estrema, provocatoria, argomentata con una veloce scorribanda negli ultimi due secoli, saccheggiando ideologie e culture, attraversando con sconcertante disinvoltura le differenze tra socialismo e populismo, tra nazionalismo e liberalismo, lasciandosi ad andare ad affermazioni sconcertanti («nel 1917 l'evento cruciale non fu nè la Rivoluzione russa nè il ritiro della Russia da una guerra europea, ma l'entrata in quella guerra dell'America»).
L'interesse del libro risiede piuttosto nella forza con cui Lukacs sottolinea il ruolo assunto dai media in una democrazia di massa totalmente fondata sulle opinioni. E' questo infatti uno dei modi più incisivi per affrontare il rapporto tra i media e la storia: non solo strumenti per raccontare la storia o fonti per la conoscenza storica di un dato periodo, ma direttamente «agenti di storia», in grado cioe' di plasmare comportamenti, atteggiamenti mentali, scelte politiche di masse sterminate di uomini in tutti i Paesi a capitalismo maturo. Giustamente Lukacs fa risalire alla Prima guerra mondiale («nel 1914 ai quotidiani e quindi ai loro proprietari, direttori e giornalisti va riconosciuta una responsabilità per la catastrofe imminente non minore di quella degli ambasciatori, dei militari fanatici e dei ministri») l'affermazione esplicita di questo ruolo dei media. A questa dimensione ancora esclusivamente giornalistica si è aggiunta, in modo prorompente dopo la Seconda guerra mondiale, quella televisiva. Nel 1948 Harry Truman comparve in televisione per soli tre minuti e solo per esortare i cittadini ad andare a votare; ma già nel 1952, con Dwight Eisenhower, prima nel corso della campagna elettorale poi durante la sua permanenza alla Casa Bianca, furono assunti come consulenti due famosi attori di Hollywood, Robert Montgomery e George Murphy, per istruire il nuovo presidente repubblicano sull'uso del mezzo televisivo. Da allora il rapporto tra la televisione e la politica è diventato sempre più invasivo fino alla singolare esperienza italiana di Forza Italia, affermatasi come il maggiore partito del nostro sistema politico fondandosi direttamente e senza mediazioni sulla televisione. Oggi (ed è questa la punta estrema della tesi di Lukacs), i media si sono sostituiti allo Stato anche nella capacità di determinare le coordinate complessive della nostra esistenza collettiva. Trascurando i lati più inquietanti di questa realtà legati alla drastica ridefinizione dei concetti di libertà e democrazia, ci sono in essa risvolti che toccano direttamente la capacità dello storico di studiare e interpretare la contemporaneità. Se in passato si è esagerato nell'attribuire importanza alle singole personalità, («Napoleone disse, Lincoln disse...») oggi soggetti come «sistema dei media», «opinione pubblica» sono molto più indecifrabili, difficili da studiare; la loro documentazione non è più racchiusa nelle grandi roccaforti cartacee degli Archivi di Stato, ma è disseminata nel mondo impalpabile ed etereo della «rete», nei suoi siti precari e volatili, negli archivi effimeri delle televisioni e delle cineteche. E' tutto più difficile, specialmente se gli storici contemporanei, come sostiene Lukacs, si ostinano a rimanere «pesci freddi che hanno passato la loro vita in archivi polverosi e scrivono una lingua burocratica brutta e inumana, una lingua di legno prosciugata di tutta la poesia, piatta come un pidocchio».

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