24.9.11

Steve Jobs (mister Apple). Un discorso e una polemica sul "manifesto")

Tra il 26 e il 30 agosto 2011 Steve Jobs, il geniale informatico e imprenditore che ha fondato e in vari periodi diretto la Apple, è stato oggetto di speciali attenzioni da parte del “manifesto”, il quotidiano comunista. Il 26 Alberto Piccinini nei “Vuoti di memoria” riprendeva un suo drammatico e bellissimo discorso agli studenti della Stanford, dopo l’intervento chirurgico sul suo cancro al pancreas nel 2005. In un’altra pagina, annunciando l’uscita di Jobs, dalla direzione effettiva della Apple, Matteo Bartocci ne tesseva un panegirico tanto elogiativo da sembrare un necrologio, denominandolo Mr. Think different (“il signor pensare differente”) e attribuendogli una capacità d’invenzione quasi senza paragoni. Il 30 il giornale pubblicava la puntuta lettera di un lettore (Maurizio Zanaldi) assai critico con l’articolo che, non solo ignorava di che lacrime e che sangue grondasse il capitalistico successo di Jobs, ma ne ridimensionava le qualità d’inventore. A sua volta Bartocci nella replica ulteriormente valorizzava il suo eroe. Non intendo entrare nel merito della polemica, che ha anche delle implicazioni generali su cui voglio riflettere, anche perché quasi nulla so della straordinaria storia dell’informatica, che è pure argomento degnissimo per la ricerca marxista del nostro tempo. E tuttavia l’articolo, la lettera, la replica tutti pieni di riferimenti fattuali e persino aneddotici m’hanno molto incuriosito e indotto a conservarli in questo blog. A maggior ragione vi posto il frammento di discorso scelto da Piccinini, che mi pare anche un piccolo capolavoro filosofico e letterario. (S.L.L.)  

Steve Jobs dopo l'intervento al pancreas
Drammatico
di Steve Jobs
a cura di Alberto Piccinini
Più tardi quella sera mi hanno fatto una biopsia, hanno fatto scendere un endoscopio giù per la gola, attraverso lo stomaco e l'intestino, e un ago nel pancreas ha prelevato alcune cellule del tumore. Ero sedato, ma mia moglie, che era là, mi ha raccontato che i dottori quando hanno scoperto che si trattava di una rara forma di cancro curabile chirurgicamente, si sono messi a piangere. Sono stato operato, e ora sto bene. E' stato il momento in cui ho visto la morte più da vicino, e spero che sia così per qualche decina d'anni ancora. Essendoci passato, posso dirvi quel che segue con un po' più di convinzione di quando la morte era per me un fatto chiaro ma puramente concettuale. Nessuno vuole morire. Anche quelli che vogliono andare in paradiso non vogliono morire per arrivarci. Eppure la morte è il destino che tutti condividiamo. Nessuno l'ha mai evitata. Ed è giusto che sia così perché la Morte è molto probabilmente la migliore invenzione della Vita. E' l'agente che la Vita usa per cambiare. Spazza via il vecchio e fa posto al nuovo. In questo momento il nuovo siete voi, ma un giorno non troppo lontano diventerete gradualmente il vecchio e sarete spazzati via. Mi spiace essere così drammatico, ma è la pura verità. Il vostro tempo è limitato, non sprecatelo vivendo la vita di qualcun'altro.
(Steve Jobs, discorso inaugurale agli studenti della Stanford University; 12 giugno 2005)

Mr. Think different, il più grande inventore del Novecento
di Matteo Bartocci
Un manager, un leader, un inventore. Il più straordinario «nerd» di tutti i tempi. Dopo mesi di malattia, Steve Jobs lascia definitivamente la guida della Apple.
Il suo addio non è solo un vero giro di boa per un'azienda che ha infilato una dopo l'altra una serie di innovazioni senza precedenti. E' anche il passaggio di testimone di una generazione eroica, fricchettona e visionaria che dagli anni '70 guida quella rivoluzione tecnologica che da decenni continua a ridisegnare gusti, socialità, comunicazione, business, arte e creatività di miliardi di esseri umani.
La lettera con cui annuncia ai dipendenti e ai mercati il passaggio di consegne al suo numero due operativo, Tim Cook, è un capolavoro di classe, umiltà e understatement: «Non sono più all'altezza dell'incarico e delle mie aspettative come amministratore delegato ... ma sono sicuro che i giorni più brillanti e innovativi della Apple sono ancora davanti a noi». A differenza dei giovanissimi creatori di Google e Facebook, né Jobs né Bill Gates si sono mai laureati. Entrambi hanno creato dal nulla, in un garage, aziende che hanno cambiato la storia dell'umanità.
Solo a scorrerne i passaggi principali, la biografia di Steve Jobs eccede quella di una dozzina di persone normali. Nato non voluto da un padre siriano musulmano e da una teenager che l'ha subito dato in adozione, Jobs è senza dubbio il più grande inventore del XX secolo. Non solo di oggetti come l'AppleII, il Macintosh, l'iMac, l'iPhone, l'iPod e l'iPad. Ma anche di interfacce tanto naturali che un minuto dopo essere state create sembra ci siano sempre state: l'uso totale del mouse e delle icone, la grafica asciutta e iper-usabile (frutto dei suoi studi da giovane drop-out in calligrafia), la genialità delle animazioni Pixar, il multitouch.
Un telefono senza pulsanti e un computer senza tastiera sembrano impossibili da descrivere a parole. Ma basta sfiorare il vetro di un iPhone o di un iPad per capire che quel tocco leggero è sempre stato nelle nostre potenzialità. Era nelle nostre mani prima che lo sapessimo. Del resto, a chi gli chiedeva quale fosse stata la ricerca di marketing preliminare al lancio dell'iPad, Jobs ha risposto: «Nessuna, non è il lavoro dei consumatori sapere quello di cui hanno bisogno».
Innovazioni che si ripercuotono anche nell'arte: chi avrebbe mai potuto imporre alle case discografiche mondiali la vendita legale di un dollaro a canzone? Dal 2008 invece iTunes è il primo negozio di musica del pianeta. E anche quando è uscito il primo iPad, tanti l'hanno bollato come «un inutile iPhone più grande»: «Non ha una funzione chiara». Forse. Però ne sono stati venduti 10 milioni solo negli ultimi 90 giorni. Come dicono gli analisti, «non c'è un mercato dei tablet, c'è solo un mercato dell'iPad».
La recente uscita di Hp dal mercato - clamorosa e definitiva - è solo l'ultimo trionfo di un'invenzione già amatissima e (quasi) perfetta. Jobs oltre a inventare nuova tecnologia è stato un implacabile distruttore di quella obsoleta. I suoi computer sono stati i primi ad abolire prima il floppy disk, poi il lettore cd, e in tanti hanno criticato l'iPad per la sua superficie perfettamente liscia: «Non ha neanche una porta usb». Eh già. Nel frattempo la Silicon Valley sta sposando la filosofia della «cloud», la nuvola immateriale che avvolgerà tutta la musica, testi, video e foto che siamo capaci di immaginare. La nostra identità, e non è detto che sia un bene, non sarà più bloccata in un oggetto più o meno portatile ma a disposizione ovunque e comunque.
Chi critica il suo sistema chiuso, ferocemente proprietario (chiedere a Samsung che è appena stata sconfitta all'Aja nella battaglia dei brevetti), non può non riconoscerne il successo: 15 miliardi le «app» scaricate.
Non è fortuna o il frutto di freddo marketing, è soprattutto un incrocio di intuizione e visione. Solo un «nerd», uno smanettone misantropo e adoratore della tecnologia può essere così arrogante da imporre quello che ancora non c'è. Pensare l'impossibile affinché si avveri. Ieri sul suo blog Vic Gundotra, il numero tre di Google, commentando l'addio di Jobs ha raccontato una storia. Era il giorno della Befana del 2008, una domenica mattina, e Jobs l'ha chiamato per chiedergli una cosa urgentissima. Sarebbe stato un problema per loro se Apple avesse cambiato il tono di giallo della seconda «o» di Google perché sullo schermo dell'iPhone gli sembrava «sbagliato»? Ecco Steve, un signore che la domenica mattina si occupa di un dettaglio insignificante non solo per la maggior parte delle persone ma anche per qualsiasi supermega miliardario.
Apple non è solo la compagnia più ricca di Wall Street, seconda solo a un gigante «cattivo» come la Exxon Mobil (e per qualche settimana l'ha anche sorpassata). E' anche la società che fa più profitti in proporzione alle sue relativamente piccole quote di mercato (+125% nell'ultimo quarto, in piena crisi). Crea oggetti costosi, li produce a poco e li vende straordinariamente bene. Il 62% dei ricavi è extra Usa ma il suo marchio è la quintessenza dell'America. Niente «buonismo»: pragmatismo e sogni allo stato puro. Contrariamente alle altre società di Wall Street, Apple fa zero beneficenza e non distribuisce dividendi. Rimane tutto in cassa e viene reinvestito nei suoi prodotti e nelle sue persone. E' un modello che funziona? Beh, dieci anni fa le azioni valevano 9 dollari, oggi 370.
One more thing. Jobs resta un dipendente della Mela e chairman del cda. Cosa lascia alle sue spalle? Per ora la società ha un team di superstar. Tim Cook è un workhaolic nato nel Sud, mago della logistica e della produzione industriale (è anche nel cda della Nike). Uno che sui blog viene già bollato come il manager gay più potente del mondo (non ha mai fatto coming out, però). Jonathan Ive è il geniale designer britannico che ha condiviso con Jobs tutte le svolte più importanti. E accanto a loro c'è il capo del software Scott Forstall. Le difficoltà non mancano. Ron Johnson, principe del retail e inventore dei super-profittevoli Apple Store, per esempio, lascerà a novembre (va ai supermercati J. C. Penney). Ma finché il top management resta quello, non c'è ragione di ritenere che a Cupertino smettano di innovare e vendere bene i loro prodotti.
Il logo della Apple è un chiaro omaggio alla morte dell'«inventore dei computer» Alan Turing, che si suicidò mangiando una mela immersa nel cianuro per le vessazioni subite come omosessuale nell'Inghilterra degli anni '50. Ma è anche la mela della conoscenza. Un desiderio, una fame, un morso (bite) che fa precipitare l'uomo sulla Terra e lo costringe a incontrarsi con la sua vera natura. Ormai siamo fatti della stessa sostanza dei nostri bit. Apple, «think different». Sarà dura, ma provateci ancora.

Steve Jobs con Bill Gates
La setta di Steve Jobs
La lettera di Maurizio Zanaldi
Sono rimasto sconcertato dall'articolo di pag. 15 su Steve Jobs (il manifesto 26/8) che lascia la direzione della Apple, a parte le adorazioni per il capitalismo vincente («è la società che fa più profitti»). «È un modello che funziona», sì, certo, con alle spalle la fabbrica dei suicidi in Cina e con prodotti venduti con margini che nessuno si può permettere. Mi sarei aspettato, non dico una critica del capitalismo, ma un pizzico di analisi sul ruolo del marketing (la vera forza e straordinaria capacità di Jobs), su come sia possibile organizzare una gigantesca setta che usa solo i tuoi prodotti e che solo per accenderli deve consegnarti il numero di carta di credito. Che se il capo decide che il sito di Wikileaks non te lo fa vedere perché il governo americano non gradisce, che spilla il 30% a tutti quelli che vogliono vendere prodotti ai suoi utenti, obbliga i suoi utenti a comprare esclusivamente dal suo negozio e via dicendo. Quanto all'inventare tecnologia, vorrei si citasse una sua invenzione tecnologica (tecnologica, non di marketing): ha usato le innovazioni di altri indubbiamente meglio di altri, molti sono convinti che abbia inventato il sistema a iconcine e finestre (brevetto Xerox) o lo schermo tuch che si allarga con le due dita (altro brevetto non suo), o il sistema operativo, che ora è un Linux rielaborato dopo che il suo sistema operativo è stato totalmente abbandonato con tutti quelli che l'avevano acquistato. La "compatibilità all'indietro" non è mai interessata alla Apple. I brevetti della causa con Samsung riguardano l'eccessiva somiglianza del prodotto con Ipad2 (in Usa si brevetta di tutto anche l'aspetto di un prodotto) non la tecnologia e nemmeno il Tablet che non è un'idea o brevetto di Steve Jobs. Ipad2 tra l'altro è costruito su componenti proprio di Samsung. Dopo di che, come altri, Apple ha sfoderato anche ottimi prodotti, Ipad2 non ha ancora concorrenti, il primo è proprio il Samsung appena uscito che viene affrontato a suon di tentate cause e non per competere tecnologicamente con il diverso Sistema Operativo.
Insomma, va bene non conoscere le cose, ma almeno almeno un po' di cautela, no?

Uno spazio di libertà
La replica di Matteo Bartocci
Sprecare alberi preziosi per discutere la qualità dei prodotti Apple mi sembra un delitto ambientale imperdonabile. Su Internet ci sono già migliaia di forum e blog completamente dedicati alle guerre di "religione" tra Mac e resto del mondo. Mi limito a sperare di essermi basato sui fatti. La lettera di Maurizio Zanaldi contiene alcune imprecisioni e un'innegabile verità: il marketing e il packaging sono ingredienti chiave nella strategia di Cupertino. Dietro ogni iPhone c'è scritto: «Designed in California, assembled in China». Un tatuaggio che è la quintessenza del capitalismo "avanzato". Ideazione, sviluppo, negozi e commessi «made in Usa» più operai cinesi. E però, caro Maurizio, il capitalismo è capitalismo ovunque, tanto a Wall Street quanto nella Repubblica popolare, dove è un partito comunista a lasciare mano libera ai padroncini locali. Non credo, purtroppo, che solo Apple ottenga margini di prodotto «che nessuno si può permettere». Sospetto che Gap, Nike, Mattel e altre multinazionali riescano a fabbricare i propri oggetti a costi inimmaginabili per i nostri standard. So però che i dipendenti degli Apple Store italiani, caso raro nel retail, sono assunti a tempo indeterminato e iper-formati (dovrei dire «plagiati»?) per fare il loro lavoro di assistenza e vendita. Forse Marchionne potrebbe imparare qualcosa dai capitalisti americani.
Maurizio però ha molte ragioni. Sulla vicenda Wikileaks la Mela, senza troppe spiegazioni, ha cestinato una «app» che raccoglieva i documenti trafugati dal gruppo di Assange. Un comportamento identico a quello di società come Visa, Mastercard, Paypal e perfino Amazon, sulla cui gigantesca infrastruttura tecnologica sono ospitate le principali aziende del mondo. In questo caso, il comportamento del governo americano è stato senza dubbio pari a quello di «regimi» come Cina e Iran. Una censura illegittima, fulminea e arbitraria che azzoppa secondo me definitivamente il mito della totale libertà di parola su Twitter, Facebook o altre future «cloud» made in Usa.
Ma rimaniamo a Steve Jobs. Nel mio articolo mi limitavo a celebrare l'addio di un inventore senza nessun dubbio straordinario. Per dirne solo una, la storia del «furto» alla Xerox del mouse e dell'interfaccia a icone è una leggenda metropolitana. La Xerox aveva costruito uno spin off, lo Xerox Parc, che (è vero) fabbricò un mouse che costava 300 dollari e un computer che ne costava 16mila. Come usava in quegli anni, Xerox consentiva a molte start-up (com'era Apple all'epoca) di curiosare tra i suoi prototipi per vedere se c'erano idee che si potevano sviluppare. Jobs lo fece e Xerox in cambio ottenne un mucchio di azioni quando la società si quotò in borsa. Per intenderci, era una specie di laboratorio hardware «open source». Ma come dicevo nell'articolo: Jobs non ha inventato né i computer, né gli smartphone, né i lettori mp3, né i tablet né la vendita on line di canzoni o software. Ha però innegabilmente «rivoluzionato» tutte queste cose - che già esistevano - rendendole semplici e utilizzabili a livello di massa. Non secondo me ma secondo un dato oggettivo: il loro successo. Per farlo, è vero, «nessuna compatibilità all'indietro»: Jobs ha distrutto tanta tecnologia. E ha fatto bene, aggiungo io, perché era obsoleta, inelegante e inefficiente. In questo Apple è perfino cannibale: l'iPad e l'iPhone rendono obsoleto l'iPod. Se qualcuno è capace di fare di meglio si accomodi. Hp si è ritirata e Samsung sta perdendo i primi round della «battaglia dei brevetti» in Europa e in Australia perché ha copiato. Almeno questo sostengono i giudici che se ne sono occupati. La competizione nel mercato hi tech è spietata: innovare o fallire. A Jobs - è stranoto - sono successe entrambe le cose.
Non so se il successo di Apple sia merito di una «setta» o delle strategie subliminali del marketing californiano. So però che parlare (bene) di Steve Jobs non è una «resa» al capitalismo. Al contrario, è dimostrarne le contraddizioni, illuminare uno spazio di libertà, trasformazione e creatività che può andare al di là delle intenzioni di chi l'ha progettato. Un adolescente può girare un video della sua band in qualità Hd con un semplice telefonino, mixare l'album con un tablet sul tram, pubblicarlo prima del capolinea su YouTube e venderlo in tutto il mondo via iTunes. Non sono sicuro che tutto questo sia solo il frutto di qualche genio del male o di astuzie studiate alla scrivania. Mi ricordo una frase dello spot «think different» degli anni '80: «Solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero». Al bando la cautela: è solo di ciò che non funziona che si deve tacere.

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