Un'immagine da "Le Avventure di Robinson Crusoe", Luis Buñuel (1954) |
Per chi ancora non la conosce (caso tutt’altro che raro), la favola del primo uomo della civiltà borghese moderna è disponibile adesso anche negli Oscar Mondadori.
Ma anche per chi conosce nella sua integrità questo libro straordinario e non lo ha subìto deturpato dalle mutilazioni delle edizioni “per ragazzi”, l’occasione per rileggerlo non è da buttare via. Non fosse altro che per omaggio al precetto antico: non bisogna leggere multa, sed multum, non molte cose, ma molte volte lo stesso libro, specie se è un classico.
Poi perché questa storia semplicissima è in realtà una trappola insidiosa, in cui ci appoggia il piede può smarrirsi per sempre.
Robinson, commerciante marinaio naufrago, è – lo dicono tutti – il prototipo del borghese, del moderno homo oeconomicus. e’ lui il vero Adamo, molti decenni prima di Adamo smith. Il mondo lo conosce, infatti, nel 1719, la Ricchezza delle Nazioni è del 1776, tanto è vero che se necelebra quest’anno il secondo centenario (anche su queste colonne l’ha fatto Claudio Napoleoni). Dunque è vero che la letteratura prefigura (a volte) situazioni e modelli che solo più tardi perverranno a una consapevolezza razionale.
L’Inghilterra da cui Robinson è partito sta per entrare nella rivoluzione industriale. E questo comporta un fenomeno crudele da un punto di vista umano, ma forse necessario da un punto di vista economico: la divisione del lavoro che Adamo Smith descrive in pagine celeberrime. Ma il protagonista di Defoe fa esattamente il contrario nell’isola in cui è naufragato: realizza l’esempio più pieno di integrazione di tutti i lavori in un solo soggetto, che è lui, Robinson, uomo pieno completo e soddisfatto.
Dunque la letteratura ha un suo rapporto intenso con la storia, ma non perché la “rifletta”. Si tratta di un gioco più complesso di cui i letterati si illudono (o fingono) di conoscere le regole…
Il regista Luis Buñuel ha dedicato a Robinson un film semisconosciuto. Ci si potrebbe aspettare che Buñuel giochi con il paradosso per cui un uomo passa ventott’anni, due mesi e diciannove giorni senza una donna, e costruisce eleganti variazioni sul latente rapporto omosessuale che lo lega a Venerdì. Ma Buñuel ha capito dov’è il trucco: a furbo furbo e mezzo. Preferisce giocare sull’oro. Quell’oro che Robinson fa finta di trovare inutile, in un’isola deserta (“Feccia! A che cosa servi?”), e che il regista fa riapparire alla fine. Perché non è mai scomparso. Anzi ha sempre rappresentato, nascosto ma presente, la “misura di valore” di tutte le cose. Robinson non può abbandonare l’isola perché la sua non è un’isola vera, ma la fabbrica, l’Inghilterra, il Continente.
P.S.
Ho recuperato questo giudizio di Beniamino Placido in un vecchio ritaglio di “Repubblica”. Non c’è indicazione di data, ma dal testo s’intende che l’anno è il 1976.
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