«La cosa buona della musica è che quando ti colpisce non senti dolore» (Trenchtown Rock, 1973), in fondo tutta la filosofia di vita di Bob Marley è sintetizzata in questa frase, che simboleggia il potere taumaturgico della sua musica.
Certo, parlare di un artista così e scadere nella retorica, nelle banalizzazioni e nei luoghi comuni è un rischio che si corre, tanto è stato detto e scritto sulla sua figura e sulla sua opera. La sua popolarità lambisce i confini del pianeta, ed è improbabile che ci sia qualcuno che non abbia sentito pronunciare almeno una volta il suo nome. È stato paragonato a Malcolm X, per carisma e per la forza del suo messaggio, benché fosse solito dire: «Sono solo un uomo, non sono un profeta. Conosco alcune parole e so come usarle». Pare niente ma sta tutto qui il segreto del suo ricordo immortale, il fascino di un piccolo-grande uomo, la sua tremenda attualità. Per comodità, o per un facile esercizio di memoria si pensi allo sgomento diffuso, per la morte prematura di Michael Jackson, un evento ad alta esposizione mediatica, ma realmente commemorato in tutto il mondo e compianto in lungo e in largo sui social network.
Trent’anni fa, quando Bob Marley si spense, l’11 maggio del 1981, in un ospedale di Miami, il potere di internet non aleggiava ancora, ma un boato scosse la terra. Judy Mowatt, una delle coriste di Bob Marley & The Wailers (le I-Three), racconta che quando ricevette la telefonata in cui le veniva annunciata la morte di Marley, scoppiò - letteralmente - un tuono a ciel sereno, in una bellissima giornata di sole. Come se fosse morta una divinità.
Il 21 maggio del 1981, 100mila persone scesero in strada in occasione del funerale che si tenne in pompa magna rasta, come un carnevale in musica, e preghiere, a Nine Miles, dove egli era nato 36 anni prima, il 6 febbraio del 1945, una data scalfita indelebilmente nella storia giamaicana.
Un mausoleo di pietra fu costruito in suo onore, affollato quotidianamente da una folla di fan e «fedeli» alla dottrina marleyana. Marley, era un devoto rastafari, adulatore di Hailé Selassié, una religione che prescrive il divieto di amputazione degli arti; perciò Bob si rifiutò di farsi amputare l’alluce per un melanoma dando al dottore del ciarlatano. Purtroppo il cancro gli fu fatale.
Dalla politica Bob Marley ha sempre preso le distanze, propendendo per una personale visione del mondo e delle sue ingiustizie, intesa a forgiare un pensiero coerente, schietto, un j’accuse senza fronzoli nei confronti del colonialismo, della schiavitù, dell’imperialismo;ed è, ad esempio, in canzoni come Redemption Song, suo testamento spirituale, o in War (tratta da un discorso di Hailé Selassié all’Assemblea generale delle Nazioni unite) che si carpisce l’essenza più profonda della figura di Bob Marley, tra le più imponenti e ieratiche del XX secolo. Uno che cercava la bellezza dei neri nella profondità delle radici, nel cammino verso la madre Africa. Un personaggio scomodo, evidentemente, per via delle sue idee di giustizia e per il seguito planetario che egli stava riscuotendo dopo la pubblicazione di Catch a Fire nel 1973 grazie all’incontro con il produttore della Island Chris Blackwell, tanto che nel 1976 fu vittima di un attentato nella casa prestatagli proprio da Blackwell, al 56 di Hope Road a Kingston, una bellissima tenuta coloniale, pochi giorni prima del concerto per la pace, Smile Jamaica.
Ambush in the Night («tutte le armi puntate contro di me, un’imboscata nella notte. Hanno fatto fuoco contro di me, li vedo lottare per il potere...») è frutto di quell’esperienza, una canzone in cui Marley associa il fatto personale con le sofferenze della gente dei ghetti, un attentato avvolto nel mistero, anche se si è parlato - per bocca del suo manager Don Taylor, anch’egli rimasto ferito - di un coinvolgimento della Cia.
Negli affari interni giamaicani resta memorabile il ruolo di mediatore svolto da Bob Marley, in occasione del One Love Peace Concert nel 1978, tra i due antagonisti politici dell’epoca, Edward Seaga e Micheal Manley, una contrapposizione all’apice che aveva generato una violenta guerriglia tra le bande delle fazioni rivali, provocando gravi disordini e parecchi morti. Artefice del simbolico gesto della stretta di mano tra i due leader politici, il Marley tenta una riappacificazione per la sua gente che non ebbe i risultati sperati.
Più controverso il rapporto che Bob aveva con le donne, ammaliate dal suo innato savoir faire; bassino e minuto, avvolto in una folta chioma di dreadlock, ragazzo di campagna, figlio di una contadina giamaicana e di un militare dell’esercito britannico, aveva tutte ai suoi piedi. Eppure la moglie, Rita Marley, additata oggi da molti come una cinica e un’arrampicatrice, ha raccontato in una biografia dal titolo No Woman No Cry. La mia vita con Bob Marley, pubblicata da Mondadori, nel 2004 (con Hettie Jones), la sua relazione complicata con il re del reggae, soffermandosi sui capricci del marito, le scenate di gelosia, i suoi tradimenti. Che serve a ricordare quanto la Giamaica sia terra di contraddizioni e discriminazioni radicali, e che la dominante patriarcale si manifesta con la superiorità dell’uomo da un punto di vista artistico (più volte abbiamo parlato della difficoltà per le cantanti donne di emergere in un contesto sessista) e in tutti i momenti della vita sociale. Interpellato a proposito della segregazione delle donne nell’ambito della cultura rastafari, Bob Marley sottolineava: «Le donne sono le nostre madri; abbiamo madri e mogli e sono donne... altro che ruoli» (da Reggae News, 1980). Insomma, tutto da discutere. Quanto alla moglie, Rita, in fin dei conti sembra averlo più che perdonato - come le altre donne che Bob ha amato e poi lasciato - e dagli studi Tuff Gong fondati dall’illustre marito, ci tiene a far sapere che l’importanza del trittico pace, amore e unità da lui coniato è quanto mai attuale per costruire un mondo migliore, ribadendo altresì l’importanza di portare avanti l’opera e l’eredità spirituale del profeta del reggae.
Primi fra tutti a raccogliere l’eredità artistica di Marley, sono i figli, il primogenito di Rita, Ziggy, che dopo una carriera fulminante con i Melody Makers vive ora un po’ in sordina, ma ha co-prodotto assieme a Chris Blackwell, il documentario Marley, diretto da Kevin McDonald, un progetto naufragato più volte, originariamente affidato a Martin Scorsese, poi a Jonathan Demme, ora finalmente messo a punto per il trentennale della morte del cantante.
Anche Kymani, Stephen, Julian e Roan, attualmente impegnato nella gestione della piantagione di caffè di famiglia, la Marley Coffee, si sono giocati le loro carte nel mondo musicale, ma chi ha calato realmente gli assi è Damien, il minore dei figli maschi, nato dalla relazione con la modella Cindy Breakspeare, che dopo un esordio clamoroso con l’album Welcome ro Jamrock, è protagonista del combo con il celeberrimo rapper Nas, con il quale ha firmato il disco dal titolo, Distant Relatives. Fisionomia e voce ricordano il padre in maniera impressionante. Chissà se a Bob sarebbe piaciuto il connubio con l’hip hop.
(da “alias” 30 aprile 2011)
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