Due libri:
«Debt»
di David
Graeber
e «La fabbrica dell’uomo indebitato»
di Maurizio
Lazzarato,
analisi e proposte per sovvertire
la logica del debito
imposta dal capitalismo
David Graeber è un
antropologo che non ha mai nascosto il suo anarchismo politico.
Attivista nei movimenti sociali ha passato gran parte dello scorso
autunno a Zuccotti Park, partecipando attivamente all’esperienza di
Occupy Wall Street. In quelle stesse settimane la Melville House
Publishing ha pensato bene di mandare nelle librerie l’edizione
economica del libro Debt, una rivisitazione del ruolo del
debito nella storia umana. Testo ambizioso che aveva avuto delle
anticipazioni negli articoli, saggi che l’antropologo aveva
dedicato alle mobilitazioni degli studenti americani negli scorsi
anni, quando è emerso con radicalità il tema dei debiti che vengono
contratti dai giovani americani per pagare le rette dei campus. In
quell’occasione, Graeber aveva sostenuto che era un debito da
rigettare, perché impediva quel libero accesso al sapere che, in
varia misura, è previsto dalla costituzione americana.
Debt
non nasconde le sue ambizioni teoriche e può essere considerato
complementare a quello di Maurizio Lazzarato, ma con una
significativa differenza teorica-politica. Mentre l’autore de La
fabbrica dell'uomo indebitato sostiene che il debito, o meglio la
gestione del debito individuale e degli stati sovrani è immanente al
regime capitalistico contemporaneo, Graeber sostiene che il debito è
un’«istituzione» preesistente al capitalismo, che regola semmai
le relazioni sociali. I rapporti umani, sociali sono, per Graeber,
scanditi da incontri, negoziazioni, impegni presi in una relazione di
reciprocità ma anche di gratuità e di debiti accumulati e differiti
nel tempo. L’antropologo statunitense colloca cioè la tematica del
debito alla logica del dono, nella quale c’è dono, gratuità ma
anche debiti accumulati nel segno della reciprocità che non devono
tuttavia essere necessariamente onorati.
È a questo debito a cui fa
riferimento Graeber nell’indicare nell’«economia del dono»
l’alternativa pragmatica al capitalismo neoliberista. Da qui
l’invito, nell’ultima parte del volume, a sperimentare modelli di
autorganizzazione sociale che colmino i vuoti creati dalla
dismissione dello stato nel garantire servizi sociali degni di questo
nome o per sfuggire alla morsa finanziaria delle imprese che li
considerano solo merci produttrici di profitti. L’economia del dono
avrebbe dunque il potere di costituire un’alternativa al
neoliberismo. Da qui, quindi, la necessità di sottrarre il debito al
significato dominante: il potere di controllo sulla vita esercitato
dal capitale.
È indubbio il fascino
esercitato da questa lunga esplorazione storico-antropologica del
debito compiuta da David Graeber. Così come sono evidenti i suoi
limiti, laddove individua nella società il luogo dove stabilire
rapporti alla pari che sfuggano non a una indispensabile logica
mercantile - l’economia del dono non è contro il mercato, ma è
ostile alla sua forma capitalistica - bensì ai dispositivi di
controllo sociale messi in campo affinché i debiti contratti abbiamo
la forma monetaria che ipoteca il lavoro e la vita futura di uomini e
donne.
Come spesso accade ai
libri, quello di Graeber non è passato inosservato nei movimenti
sociali, l'humus umano e politico dove è maturato. E le reazioni
sono state positive. La sottrazione del debito alla sua funzione
capitalistica è stato considerate la mossa obbligata per
fronteggiare l’impoverimento generalizzato che la crisi economica
ha provocato negli Stati Uniti. A Zuccotti Park, ma in molte delle
città statunitensi che hanno visto esperienze simili, oltre agli
infiniti happening, di occupazione di spazi pubblici, che sicuramente
desterebbero l’interesse di Jean-Luc Nancy per queste temporanee
comunità inoperose, nello scorso autunno e attualmente sono state
sviluppate forme di mobilitazione che ricordano più la storia dei
movimenti sociali europei o latinoamericani che non quelli
statunitensi del secondo dopoguerra. Occupazioni di case, resistenza
a sgomberi di case i cui proprietari non riuscivano a pagare i mutui
alle banche, mercatini basati se non sul baratto su qualcosa di
simile, mense popolari autogestite. E inoltre: scambio di beni con
l’impegno a svolgere piccoli lavori di manutenzione. Insomma
un’economia di sussistenza incardinate sulla logica del dono, dove
il debito è ricondotto alla sua funzione originaria, cioè di essere
un fattore costituente di relazioni sociali incentrate su una
sostanziale eguaglianza, all’interno della quale i sentimenti di
lealtà di rispetto, di reciprocità prevalgono sulla formazione
sociale capitalista contemporanea.
Quando ci si trova di
fronte ai movimenti sociali ogni rinvio alla coerenza teorica è
vano. La sperimentazione è condizione necessaria e non sufficiente,
perché i vincoli con cui fare i conti sono la composizione sociale
dei movimenti stessi, i rapporti di forza nella società, quelle
convenzioni socialmente necessarie che sono le cosiddette tradizioni
culturali. E negli Stati Uniti questo significa fare i conti con una
visione comunitaria da sempre in tensione critica con
l’individualismo proprietario che regola i rapporti sociali. In
fondo il fortunato slogan «noi il 99%, voi solo l’l%» non esprime
solo una rappresentazione delle diseguaglianze di reddito che
caratterizza la società americana, ma anche e soprattutto
l’estraneità di quella piccola frazione della popolazione che si
appropria della ricchezza che la comunità produce. Quello che è
quindi accaduto negli anni volatili del neoliberismo non è dunque un
ingestibile accumulo di debiti individuali o degli stati sovrani, ma
l’esercizio sistematico di un furto ai danni della comunità. La
produzione di esperienza di economie alternative a quelle dominanti
non ha però nulla a che fare con la riappropriazione della ricchezza
rubate, bensì con la sottrazione dai dispositivi che hanno
legittimato un furto condotto in nome del libero mercato.
Questo cambiamento di
segno al debito è certo affascinante ma conduce a percorrere strade
piene di insidie, quasi che l’impoverimento e il «declassamento»
del ceto medio, il mantra mediatico usato dal movimento da Occupy
Wall Street per sottolineare che nessuno è immune alla crisi
economica, fosse l’esito di un semplice disfunzione dell’economia
capitalistica.
Uno sguardo meno
episodico sulla composizione sociale dei movimenti contro la crisi
illumina invece la dimensione strutturale del debito, elemento
centrale nelle riflessioni di Maurizio Lazzarato. Non ci troviamo,
infatti, alla crescita esponenziale del credito al consumo, ma uno
strumento che regola i rapporti sociali, e di classe, nelle economie
capitaliste.
Il debito non è solo un
sofisticato strumento per «drenare» denaro verso il capitale
finanziario, ma per regolare i rapporti tra capitale e lavoro. Per
usare un lessico che molti vorrebbero dimenticare, il debito è
appropriazione immediata del salario che verrà. Una riflessione
critica sul debito non può infatti non contemplare la diffusione
della precarietà anzi la sua trasformazione in regola dominante dei
rapporti tra capitele e lavoro vivo.
La crescita esponenziale
del debito individuale non dipende solo da un credito al consumo
sfuggito di mano, bensì al fatto che negli ultimi 30 anni i salari,
negli Usa e in Europa, sono rimasti al palo. E mentre in Europa il
ridimensionamento del welfare state ha determinato un aumento
delle spese individuali per fronteggiare la privatizzazione del
welfare state, negli Stati Uniti la diffusione dei working
poor ha visto crescere il debito individuale per garantire la
semplice riproduzione della forza-lavoro. E se queste dinamiche hanno
avuto una gestione «economicamente compatibile» fino a quando il
lavoro vivo coinvolto era costituito da lavoratori e lavoratrici a
tempo indeterminato, il debito è sfuggito di mano quando questa
stessa dinamica ha trovato belli e pronti strumenti finanziari
progettati per i temps, cioè i precari.
Maurizio Lazzarato nel
suo volume offre spunti di riflessione che vanno ben al di là della
dinamica economica. La fabbrica dell'uomo indebitato funziona infatti
a pieno regime come dispositivo politico di controllo sulla
cooperazione sociale e produttiva. Definisce cioè il campo in cui
collocare comportamenti individuali, scelte nei consumi, assegnando
proprio ai possessori del tuo debito il compito di controllare se ci
sono violazioni dei confini, attraverso quel simulacro di astrazione
reale che è appunto la solvibilità del debito. Ed è proprio il
diritto all’insolvibilità il nuovo campo politico da arare. C’è
da dissodarlo, liberarlo da opacità e aporie. Ma è l’unica
possibilità data affinché la fabbrica dell’uomo indebitato giunga
ben presto al suo fallimento.
“Alias il manifesto”,
31 marzo 2012
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