L'insurrezione legale
della gioventù del “miracolo”
Mezzo secolo dopo è
abbastanza facile collocare storicamente il «luglio '60». Basta la
cronologia. Basta il confronto con l’anno precedente, il 1959,
(quando la lira ottenne l’Oscar per la moneta più stabile da parte
del Financial Times), e con quello seguente, il 1961, quando i dati
del censimento rivelarono che in dieci anni eravamo diventati la
quinta potenza industriale del mondo. Si trattava del «miracolo
italiano». Il mutamento non interessò soltanto la struttura
economica ma rimbalzò sulle strutture sociali e demografiche,
sull’assetto territoriale, sulle caratteristiche professionali
della forza-lavoro, sul funzionamento dei servizi pubblici,
sull’organizzazione scolastica e su quella assistenziale. Cambiò
anche la politica. Il centrismo degasperiano aveva alle spalle
un’Italia sessuofobica, bigotta, contadina; la nuova Italia trovò
nel centrosinistra la formula governativa per accettare la sfida di
una modernizzazione improvvisa e tumultuosa.
Il luglio ‘60 si
inserisce in questa sequenza di eventi, così che Genova con la sua
insurrezione contro il Congresso del Msi, Reggio Emilia con i suoi
morti sparati dalla polizia (così come Palermo, Licata, Catania),
Roma con le cariche dei carabinieri a cavallo a Porta San Paolo,
rappresentano oggi nitidamente i luoghi in cui la «grande
trasformazione» che aveva investito la struttura profonda del nostro
paese si manifestò nelle forme più esplicite del conflitto
ideologico e della partecipazione politica.
Senza il boom non ci
sarebbe stato il luglio ’60. Senza il boom non ci sarebbero stati
«i giovani delle magliette a striscie» che ne furono i protagonisti
e l’icona simbolica. In quei dieci anni erano diventati produttori
(entrando tumultuosamente nel mercato del lavoro), erano diventati
consumatori (ci fu allora per la prima volta una loro musica, il
rock, un loro modo di vestire, i jeans, il loro percepirsi in una
netta discontinuità rispetto alla frugalità delle generazioni
precedenti); nelle piazze del luglio ’60 scoprirono la politica e
l’impegno. Lasciando tutti stupiti. I partiti politici e
un’opinione pubblica quasi incredula nei confronti delle
«rivelazione» di cosa era maturato nelle pieghe profonde di una
«gioventù» che semmai si credeva orientata più verso i valori
della destra. Tutti gli osservatori furono allora colpiti proprio da
questo tratto della rivolta: «Non sono soltanto i figli che ripetono
fedelmente e riprendono la tradizione lasciata dai padri - notava
Carlo Levi- sono questi giovani degli uomini autonomi, con caratteri
nuovi, differenziati, diversi, sono i ragazzi di Palermo, sono gli
operai e gli studenti di Genova, sono i giovani di ogni parte
d’Italia che danno un senso nuovo alla lotta sindacale, che
affermano la necessità e il diritto dello sciopero politico, sono i
giovani senza ricordi di servitù con la volontà di essere uomini».
Il luglio '60 cambiò la
storia d’Italia almeno fino al 1992-1994. Fino ad allora, dal 1948
in poi, era stato l’anticomunismo il valore di riferimento della
leadership politica del paese. La Costituzione era stata congelata.
Codici, leggi, comportamenti politici erano ancora quelli dettati dal
fascismo. Era la continuità dello stato che si rifletteva negli
organigrammi delle forze dell’ordine, della magistratura, del
blocco del potere economico. Con il luglio ’60 l’antifascismo si
ripropose come elemento fondante del nostro paradigma costituzionale.
Non più un «patto sulle procedure» come era stato nel biennio che
aveva portato all’approvazione della Costituzione; non ancora
un’alleanza tra i partiti dell’«arco costituzionale» come
sarebbe diventato dopo, ma un agente della trasformazione sociale,
capace di intercettare e di dialogare con i nuovi fermenti alimentati
dalla «grande trasformazione». «L’ipotesi più attendibile e più
confortante - scrisse allora “Passato e Presente” - è che in
luglio le masse si sono battute per la libertà: per una libertà
minacciata, sì, ma certo più per una libertà da conquistare che da
difendere. Si è lottato contro la cancrena diffusa
nell’organizzazione sociale e politica attraverso l’insolente
furfanteria dei politicanti, la corruzione del sottogoverno, la
grettezza bigotta della censura, la tracotanza padronale nella
fabbrica, l’avvilimento della scuola, l’istituto della
raccomandazione sostituito al diritto al lavoro, la retorica
nazionalistica sciorinata a coprire le piaghe sociali».
È impressionante notare
oggi la vivacità culturale che si ritrova a cavallo delle giornate
del luglio ’60. Non solo una canzone (come quella di Fausto Amodei
sui morti di Reggio Emilia) e l’esperienza liberatoria della musica
dei «Cantacronache»; ma anche il cinema (dopo la glaciazione degli
anni ’50 - con un unico e solo film dedicato alla Resistenza,
Achtung Banditi di Lizzani del 1954 - uscirono uno dopo
l'altro Il generale Della Rovere, Le quattro giornate di
Napoli, Tutti a casa..), la letteratura, l’arte e
perfino la televisione che nel 1961, dopo 7 anni dalla sua nascita,
mandò in onda per la prima volta un programma dedicato alla
Resistenza. Un paese che si trasformava nella sua struttura economica
e scopriva la strada della modernizzazione culturale si riconobbe
allora pienamente e compiutamente nell’antifascismo.
Tra gli antifascisti,
Piero Caleffi parlò allora a proposito di Genova di «insurrezione
legale». Era un ossimoro, ma oggi segnala quella che fu allora una
percezione diffusa. Venti anni di fascismo avevano introdotto i germi
di due fenomeni difficili da smaltire: la violenza era stata
utilizzata vittoriosamente per prendere il potere e distruggere le
istituzioni dello Stato liberale; l’unica forma di opposizione
politica possibile era quella legata alla clandestinità e
illegalità. Sviluppatosi contro la dittatura, l’antifascismo era
nato nell’illegalità e nell’illegalità aveva trovato l’unico
possibile antidoto all’oppressione, approdando alla concezione di
una legalità fondata sui principi morali e contro le leggi dello
Stato. Questa legalità superiore era diventata legalità tout
court con la Carta Costituzionale che vietava la ricostituzione
del partito fascista. Gli insorti di Genova si percepirono dentro
quella legalità costituzionale e infransero le leggi con la
coscienza di chi sa che quella disobbedienza è alimentata dai succhi
della democrazia e della lotta per la libertà. Era tutto molto
chiaro: «Da una parte - come scriveva allora Francesco Fancello -
esiste un categorico divieto della nostra carta costituzionale alla
ricostituzione del partito fascista... .dall’altra parte l’aspetto
giuridico formale del problema è soverchiato da quello derivante
dalla carica morale-politica che ha trascinato tanti italiani nel
campo dei fuorilegge...durante il tempo del fascismo dominante».
Quel tempo era allora vicino, ancora troppo vicino.
“il manifesto”, 4
luglio 2010
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