9.3.17

Il Pci e Pasolini. Un «lamento» civile (Giovanni Berlinguer 1976)

A un anno dalla morte di Pier Paolo Pasolini “Nuova Generazione”, il giornale della Fgci (a quel tempo guidata da Massimo D'Alema), dedicò un un inserto al poeta assassinato (Pasolini un anno dopo), curato da Gian Carlo Ferretti e ricco di importanti contributi. Esso contiene, tra l'altro, un intervento di Giovanni Berlinguer al festival dell'Unità svoltosi al Pincio nel settembre di quell'anno, in cui venne proiettato il primo documentario filmato su Pasolini firmato da Bernardo Bertolucci, Ettore Scola e Maurizio Ponzi. (S.L.L.)
Pasolini  in  borgata
Io non sono uno scrittore né un critico come Moravia, Siciliano, Arbasino. Vorrei parlare del rapporto politico-culturale che ha avuto Pasolini con il Partito Comunista. Oggi molti giornali discutono del rapporto tra gli intellettuali e il partito comunista, domandandosi innanzitutto perché tante forze intellettuali si sono orientate verso i comunisti (lo ha dimostrato il 20 Giugno). Noi stessi ci interroghiamo su questo fenomeno nuovo nella vita politica e culturale dell'Italia, e facciamo anche le nostre autocritiche, evitiamo di lasciarci trascinare dall'euforia.
Ricordiamo che 10 o 20 anni fa questo rapporto era più difficile, vi erano meno intellettuali vicini al partito comunista, e questi venivano vilipesi da Scelba, dai suoi amici, chiamati «utili idioti». Invece, la ragione principale della nostra forza nella cultura italiana sta proprio nel fatto che noi innanzitutto non vogliamo che gli intellettuali siano degli idioti, li preferiamo colti ed intelligenti; e non vogliamo neppure che siano immediatamente utili, cioè ossequiosi, che siano cassa di risonanza delle posizioni politiche comuniste. Li vogliamo e li preferiamo imbarazzanti, scomodi, stimolanti come è stato Pier Paolo Pasolini, e come sono i romanzi, i racconti, le critiche di Alberto Moravia, come sono le parole che ci hanno qui detto Arbasino e Siciliano.
Anche il rapporto che ha avuto Pasolini con il Partito Comunista e con la gioventù comunista è sempre stato un rapporto travagliato, complicato, nel quale è cambiato Pasolini e siamo cambiati noi stessi. L'immensa carica di simpatia e di polemiche che vi sono state intorno alla sua figura, all'interno stesso delle file comuniste, assieme al coro di dolore e di sconforto che ha accompagnato la sua morte, sono la dimostrazione di quanto sia cambiato questo rapporto nel corso degli anni.
Vorrei citare come esempio di contributo e di stimolo, che si è realizzato tra molti contrasti, quello che Moravia chiamava il marxismo di Pasolini, sempre associato al suo populismo, al suo rapporto così istantaneo e così diretto con gli strati più poveri, i sottoproletari tanto numerosi alla periferia di Roma e nelle sue borgate. Pasolini ha avuto verso questo popolo delle borgate un rapporto di simpatia e di profonda comprensione morale e intellettuale. Noi, come partito politico, abbiamo avuto fin dagli anni della Resistenza e poi negli anni delle grandi lotte per il lavoro e per la casa e nelle lotte per la democrazia un rapporto di analisi e di mobilitazione politica; e possiamo dire che come Pasolini è stato un «revisionista» nella letteratura, così noi siamo stati «revisionisti» in politica. Se ci fossimo attenuti al giudizio che davano i classici del marxismo, se li avessimo fossilizzati, avremmo dovuto ricordare che il Manifesto del partito comunista del 1848, l'atto di nascita del nostro movimento, definiva i sottoproletari come la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società. E avremmo dovuto ricordare come Engles ci ammoniva che, per mantenere la purezza delle forze rivoluzionarie, era necessario anzitutto tenerci alla larga da questa banda. Egli diceva: «Ogni dirigente della classe operaia che usa questi straccioni, solo per questo dimostra già di essere un traditore del movimento». Invece questi straccioni, i ragazzi che Pasolini descriveva nei suoi romanzi, in una Vita violenta, in Ragazzi di vita, questi sottoproletari, questi semioccupati delle borgate romane sono stati una forza fondamentale nella crescita politica e culturale della capitale d'Italia. Hanno fatto in modo che Roma, e adesso anche Napoli, diventassero città vive, democratiche, aperte. Hanno dimostrato di non essere soltanto una putrefazione della vecchia società, ma anche la forza che portava una tradizione, una continuità storica con un passato contadino e popolare della quale le classi lavoratrici dovevano rendersi interpreti, con la quale dovevano stabilire un collegamento. Questo ruolo rinnovatore che vanno assumendo fra molti contrasti le classi sottoproletarie nella vita politica, è stato possibile per la presenza di un movimento politico dei lavoratori, e perché ci sono state forze intellettuali come Pier Paolo Pasolini che hanno portato una carica di solidarietà umana, una capacità di assimilazione intellettuale, ma soprattutto l'intuito di vedere quanto sorgeva di nuovo, quanto più ampie che nel passato fossero le possibilità di conoscere e di trasformare la nostra società.
In questi ultimi tempi Pier Paolo Pasolini ha accentuato molto quello che alcuni hanno definito pessimismo, e che forse è meglio chiamare allarmismo, sulle sorti dell'Italia. Ha accentuato il suo lamento civile, il suo appello al senso di vigilanza su tutti i fenomeni degenerativi che si stavano affacciando nella nostra società. C'è ragione per raccogliere questo appello, perché, diciamolo con franchezza, Roma certo è oggi la città che ha per la prima volta dopo sessant'anni un'amministrazione democratica di sinistra, ma è anche la città dove si continua a scatenare una violenza selvaggia, e in cui ci sono forti elementi di degradazione che rischiano di prevalere.
I giovani, ai quali si rivolgeva Pasolini, dimostrano combattività politica e tensione intellettuale; ma presentano anche rischi di ripiombare nell'individualismo, nella lotta per sopravvivere, per cercare un lavoro in questa società che offre così scarse occasioni. Sono certo che, essendo stato così vicino al partito comunista e soprattutto alla federazione giovanile comunista italiana, Pasolini avrebbe esultato come tutti per i risultati elettorali del 20 giugno, ma avrebbe continuato quella provocazione intellettuale che ci impedisce di adagiarci. Ora, questa provocazione intellettuale deve costituire compito di ciascuno di noi, per stimolare continuamente alla riflessione e per evitare autocompiacimenti che sarebbero tra l'altro completamente ingiustificati, viste le difficoltà che attraversa l'Italia, e visti anche i nuovi compiti che ha oggi il movimento operaio e popolare.
Vogliamo continuare la provocazione, senza avere naturalmente l'efficacia polemica e la capacità incisiva che aveva Pier Paolo Pasolini nei suoi scritti, né la sua spregiudicatezza intellettuale, ma cercando la sua medesima tensione e la medesima capacità di scuotere.
Vorrei fare un esempio, riprendendo il tema degli ultimi scritti di Pasolini sul rapporto tra i giovani e il lavoro. La sua provocazione è stata «aboliamo la scuola dell'obbligo», perché sta introducendo, nell'animo di giovani provenienti da famiglie di lavoratori, stimoli, desideri, ambizioni da un lato false e dall'altro irrealizzabili.
In questo ragionamento, che egli conduceva per assurdo, c'è un fondo di verità: guardiamo alla scarsa produttività, non solo in termini economici ma spesso anche conoscitivi, culturali, della scuola italiana; guardiamo al decadere dell'industria, dell'agricoltura, della formazione delle risorse del nostro paese. Dobbiamo constatare certo le grandi colpe delle classi dominanti, vedere quanto sia difficile per i giovani trovare un'occupazione renderci conto che la società non offre quasi alcuna occasione, riaffermare che il lavoro in fabbrica è molto spesso nocivo, logorante, e che il lavoro dei minori, il lavoro nero rappresenta tutt'ora una piaga, una strage.
Ma domandiamoci se non c'è anche una distorsione nelle aspirazioni dei giovani. Io ho visto per esempio i risultati di un'indagine a Modena, la città dove ai tempi di Scelba sei operai furono uccisi perché difendevano la loro fabbrica, il posto di lavoro. Adesso l'inchiesta campione fatta tra i giovani, ha rivelato che soltanto il 40 % era disposto a un lavoro manuale pagato il doppio, rispetto ad un meschino lavoro impiegatizio pagato la metà. Domandiamoci se non c'è anche una distorsione nella mentalità dei giovani, che noi stessi forse abbiamo contribuito a creare. C'è una fuga dal lavoro produttivo: prima dal lavoro agricolo nei decenni trascorsi, ed ora anche dal lavoro industriale.
C'è una difficoltà nel fare una lotta politica, sindacale, culturale efficace per la trasformazione dell'Italia, perché poi manca la forza viva che attua questa trasformazione. Domandiamoci se qualche volta, anche nei movimenti politici dei giovani, non vi è un'esaltazione dei lavoratori quando lottano per motivi sindacali e politici, e invece un deprezzamento e, a volte perfino un altezzoso senso di superiorità per i lavoratori quando producono: si trascura il fatto fondamentale che le classi lavoratrici sono potenziale guida della società in quanto producono le ricchezze di cui vengono espropriate dal capitale, in quanto, per intenderci con il linguaggio marxista, producono valore oltre che plusvalore; e prendono coscienza di essere i produttori fondamentali di valore, e per questo aspirano con legittimo diritto a trasformare tutta la società.
Se si perde questo collegamento tra la classe lavoratrice come forza produttiva, e la classe lavoratrice come forza rivoluzionaria, tutta la politica diventa retorica, e propaganda, perde di una forza reale.

Anche su questo bisogna riflettere, perché è su questa capacità produttiva che si basa non solo la forza sindacale e politica dei lavoratori, ma anche la sua grande capacità di attrazione ideale e di stimolo verso le forze intellettuali. Questo è il punto di riferimento anche per coloro che vengono da altre culture, che hanno vissuto le loro esperienze nelle piccole città, nelle campagne, in contatto con valori del passato che le classi lavoratrici vogliono recuperare e trasformare. In questo si trova la forza di collegamento del movimento operaio verso tutti i movimenti rinnovatori della cultura; in questa capacità di cambiare fino in fondo l'Italia e il mondo, per riprendere la tensione ideale e lo stimolo della poesia civile di Pier Paolo Pasolini.

"Nuova Generazione", ottobre 1976

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