7.3.17

Il poeta conteso. Pasolini nella crisi del Pci (Federico De Melis)

Nel settembre del 1985 la Federazione Giovanile Comunista Italiana, nel decennale della morte del poeta, organizzò a Roma un grande meeting dedicato a Pier Paolo Pasolini, dal titolo La disperata passione di essere nel mondo. Uno dei temi di più intenso dibattito, nel corso della manifestazione e nella stampa comunista di quei giorni, fu il Pasolini “impegnato”. Si parlava di Pasolini, ma si parlava direttamente e indirettamente anche del Pci, che – come si diceva a quel tempo – Enrico Berlinguer aveva lasciato a metà del guado. Qui riprendo una cronaca curata da Federico De Melis per “il manifesto”. (S.L.L.)
Pier Paolo Pasolini con Franco Citti durante la lavorazione di "Accattone" (1961)
Il travaglio del Pci davanti al dilemma «fuoriuscita dal» o «gestione del» capitalismo ha trovato modo di esprimersi, la settimana scorsa, al meeting La disperata passione di essere nel mondo, organizzato a Castel Sant'Angelo a Roma dalla Fgci per il decennale della morte di' Pasolini. Occasione per una discussione più stratificata sarà invece, dal 15 ottobre, la megamanifestazione romana Una vita futura, organizzata dal «Fondo Pasolini».
Se la denuncia intorno alla quale ruota l'opera di Pier Paolo Pasolini dagli ultimi anni '60 alla metà dei '70 è quella dell'«omologazione culturale», cioè della distruzione delle culture «particolaristiche» sotto il segno del consumo, appare evidente perché ancora oggi il Pci, e nella fattispecie la sua federazione giovanile, si interroghi così ansiosamente con quell'opera.
Lo ha evidenziato Alberto Asor Rosa nel corso del suo intervento al dibattito di giovedì scorso «'Fuori dal Palazzo'. Intellettuali e potere»: gli anni che vanno dal '68 al '75 hanno rappresentato la stagione d'oro della sinistra italiana, ed è in particolare in questi anni che prende forma lo scandalo pasoliniano per l'«universo orrendo» dei bisogni indotti e spersonalizzanti. Nella sua Abiura alla trilogia della vita (compresa in Lettere luterane), scritta qualche ora prima del trionfo comunista alle elezioni regionali del giugno '75, Pasolini prevedeva quel trionfo, ma insieme lo interpretava come un progresso non reale, ma apparente, che rinviava a modificazioni nel corpo culturale del paese di cui piuttosto ci si sarebbe dovuti disperare: modificazioni peraltro irreversibili in quanto avevano cancellato (e non integrato) il passato rappresentato dal mondo contadino, e avevano sostituito ad esso, in forma di simulacro (a celare e rimuovere il vuoto dei fondamenti e dei valori), la società dei consumi.
Per quanto si possa interpretare in modo eterodosso l'opera di Pasolini, questo è il punto: era completamente disorganica al Pci perché il male italiano lo ravvisava in quelle condizioni senza le quali i comunisti non si sarebbero posti come possibilità alternativa per la guida del paese. A poco vale in questo contesto l'immagine pasoliniana del partito comunista come isola pulita in un mare orribilmente sporco.
Ma liquidare Pasolini in quanto «nostalgico» e «reazionario», considerando pura esercitazione" retorica la sua distinzione tra «progresso» e «sviluppo» (questa l'idea di Asor Rosa: lo sviluppo neocapitalistico italiano è stato necessario al progresso) significa rimuovere il travaglio del partito comunista di fronte al dilemma della «terza via».
Asor Rosa afferma che «in ogni salto di civiltà — e la rivoluzione dei consumi lo è — ci sono elementi di barbarie» e che il problema è semmai quello di «allevare», «educare» questi elementi, e non di rifiutare quel salto. Di questo passo il ruolo del Pci rischia di ridursi a una gestione più democratica della società postmoderna e nulla più. Al contrario Pasolini chiedeva al Pci di assumersi il ruolo di partito di «conservazione», di resistenza alla «prima vera rivoluzione di destra», quella del neocapitalismo. Con la sua metafora del Palazzo — ha detto Pietro Ingrao a confonto con Asor Rosa — Pasolini ha intuito la crisi della politica esplosa negli anni successivi con l'incolmabile separazione tra un ceto politico che si autoriproduce per vie esogene e manipola tutto ciò che è fuori e la vita quotidiana degli individui. Questo in risposta ad Asor Rosa che aveva parlato invece di un ceto intellettuale disperso in tanti palazzi e della necessità di chiedersi piuttosto come ci si sta e come ci si deve stare, invece che cullare il sogno di un intellettuale «fuori dal Palazzo».
In due pagine che l'Unità ha dedicato domenica 15 settembre al meeting della Fgci Alfonso M. di Nola, storico delle religioni, comunista, si chiede se i giovani omologati e disumanizzati di cui parlava Pasolini negli ultimi anni fossero una realtà o non piuttosto una meccanica trasposizione ideologica di un'esperienza strettamente personale:«Egli, testimone del tempo, è stato trascinato dall'emozione, ha rinunziato all'approfondimento delle concretezze storiche che erano nei giorni delle nuove generazioni operaie e nella costruzione della democrazia». Stessa obiezione muove di Nola a Pasolini a proposito della distruzione delle culture «particolaristiche»: sembra quasi che la sua lente, troppo adiacente a quelle realtà per eccessiva passione, avesse cancellato ogni residuo di speranza, derivante dalla capacità di avere uno sguardo più panoramico sul mondo. Quelle realtà non avevano in Pasolini, determinazioni storiche ma si configuravano piuttosto come il mito dell'«età del pane», sbocciato negli anni materni di Casarsa.
Edoardo Sanguineti, intervenendo anch'egli sulle pagine dell'“Unità”, parla a questo proposito di una «passione» che «si è subito rivolta, dai primi testi, verso un mondo, verso una 'realtà', che fosse raffigurabile come naturalmente estranea all'orizzonte borghese», dunque già prima e già meglio che «preconsumistica, quale poi diventerà, assolutamente pre-borghese e pre-industriale». Contro l'«idealismo» pasoliniano Sanguineti invita alla rilettura dei primi passi del Manifesto di Marx ed Engels, quelli dell'«elogio della borghesia e della rivoluzione capitalistica», e sembra implicito, nella sua argomentazione, che la rivoluzione neocapitalistica e insieme l'attuale rivoluzione postindusriale si configurino come una «necessità» storica nel possibile passaggio a una forma di società socialista. Sanguineti salta a pie pari, con ciò, tutte le teorie sulla fine della modernità come fine della storia, di cui è partecipe anche Pasolini quando prefigura, in toni apocalittici, l'«entropia borghese», l'universale pervasività della borghesia.
Gianni Borgna, dal canto suo, difende o costruisce dalle pagine del quotidiano comunista l'immagine di un Pasolini perfettamente inserito nelle coordinate del suo tempo. E lo fa ricorrendo ai testi, che estrae dall'opera pasoliniaia gli scritti organici al Pci: Pasolini contro la cultura della povertà e a favore di quella comunista, Pasolini «indignato» per il consumismo italiano ma non per il consumismo «in generale», Pasolini schierato al fianco dei moti studenteschi (paragonati alla resistenza), oppure contro i moti studenteschi, ma solo contro quelli italiani e francesi, che hanno ignorato la tradizione operaia che avevano alle spalle.
È in questa direzione che si è mosso nei giorni scorsi il meeting dei giovani comunisti, entrati in forte polemica con Asor Rosa, il quale li ha accusati di disputarsi le spoglie di Pasolini con Comunione e liberazione. In un intervento di ieri su “La Repubblica” il loro segretario Pietro Folena insiste con l'immagine di un Pasolini «moderno», il quale oggi si sarebbe schierato contro un conformismo che «non è più la trasgressione, ma una nuova sottile obbedienza a regole di ineguaglianza, individualismo, forza, brutalità». Questa distinzione tra il conformismo di ieri e di oggi appare un po' pretestuosa perché forse le «regole» denunciate da Folena erano anche dentro le trasgressioni degli anni '70 e d'altra parte il «nuovo conformismo» non ignora certo la trasgressione. Pasolini ha voluto dire che non esistono conformismi nuovi e vecchi, ma esiste il conformismo, nel cui universo ordine e trasgressione, disobbedienza e obbedienza risultano termini intercambiabili o dosabili a piacimento e senza residui. Parlando dei giovani non conformisti Pasolini lamentava la solitudine a cui erano destinati quei pochissimi ragazzi costretti a crescere culturalmente e politicamente sempre contro qualcosa, senza solide radici a cui allacciarsi: e sono per lo più, scriveva, i giovani comunisti.
La dimensione storica e anche politica che Pasolini sentì l'urgenza di abbracciare si doveva necessariamente scontrare con un apriori mitico, com'è per ogni scrittore da almeno due secoli. È la contraddizione di cui tanto si parla a proposito di Pasolini, in lui certo più trasparente perché aveva deciso di «buttare il suo corpo nella lotta». È la contraddizione di cui parla la sua grande amica Laura Betti, e ogni volta aggiunge che tuttavia sempre rientrava, la curva spezzata sempre ritrovava il suo cerchio, un mondo a tutto tondo, caldo e compatto, perfettamente interiorizzato che non trovava fuori.


“il manifesto”, 25 settembre 1985

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