E ora di restituire
all’espressione ’’grande vecchio” il suo significato
positivo: non di occulto manovratore di trame terroristiche, ma
appunto di grande vegliardo la cui figura ha dominato il nostro
secolo e gli ha dato una fisionomia. Di grandi vegliardi ne potremmo
ricordare molti, dalla politica all’arte militare, dalla finanza
alla religione. Ma qui si sta pensando ai grandi formatori dell’arte
e del pensiero, a coloro che attraverso la loro opera creativa o le
loro teorie ci hanno insegnato a guardare al mondo in modo diverso. E
per essere definito un grande vecchio occorrono, ci pare, due
caratteristiche: essere arrivato alla età più tarda, sempre attivo,
sempre guardato come modello anche dai giovanissimi, mirabilmente
sopravvivendo alla propria fama; ed avere influenzato i contemporanei
al di là della propria attività specifica, da un lato esercitando
una visione interdisciplinare, dall’altro avendo fatto qualcosa nel
proprio campo che ha obbligato tutti, in ogni campo, a pensare
diversamente.
Nella seconda metà di
questo secolo abbiamo visto spegnersi molti di questi giganti: a
partire da Einstein, per arrivare a Picasso, da Bertrand Russell a
Strawinsky. Erano la coscienza di un’epoca, i protagonisti della
civiltà contemporanea: dopo il loro passaggio non si poteva più
pensare come prima. Vivi, erano la testimonianza di una grandezza e
di una energia vitale difficile a spegnersi. Man mano che muoiono ci
guardiamo intorno, scrutando nel volto i cinquantenni, i sessantenni,
i settantenni di oggi, chiedendoci se in loro stia crescendo qualche
grande vecchio di cui non indoviniamo ancora tutta la grandezza, col
timore che la stirpe si sia estinta. Pochi giorni fa è morto uno
degli ultimi grandi vecchi del secolo. Si chiamava Roman Jakobson,
era nato a Mosca nel 1896. Era passato attraverso gli esperimenti
delle scuole formaliste, dei circoli poetici moscoviti, aveva
collaborato con Eisenstein, tra il periodo moscovita e quello
praghese aveva contribuito a fondare una mezza dozzina di discipline
che oggi si insegnano nelle università, dalla linguistica
strutturale alla poetica, dagli studi etnologici alla nuova critica.
Sottrattosi allo stalinismo, sfuggito per miracolo nel 1939 ai
nazisti, emigrato in America, aveva intuito i legami tra scienza
linguistica e teoria matematica dell’informazione, aveva dato idee
a Levi-Strauss per la nuova antropologia strutturale, aveva
affrontato dal punto di vista linguistico problemi di neurofisiologia
(dai suoi studi magistrali sull'afasia ai recentissimi scritti sulle
due metà del cervello umano). Aveva ispirato una nuova generazione
di analisti della letteratura, aveva dato un impulso decisivo alla
nascita della semiotica, aveva trovato l’anello mancante per
congiungere la scienza dei segni così come si era formata nei secoli
alle ricerche degli strutturalisti, da un lato, e al pensiero del
grande logico e filosofo della seconda metà dell’Ottocento,
Charles Sanders Peirce, dall’altro.
Non era famoso presso
l’uomo della strada come Picasso o Einstein: ma apparteneva alla
stessa razza. Tutti avevano imparato qualcosa da lui: e a
ottantacinque anni cercava ancora di imparare qualcosa da tutti. Una
sua bibliografia pubblicata dieci anni fa comprendeva seicentotrenta
titoli, in tutte le lingue note e ignote: ciascuno di questi testi
aveva fecondato un ramo delle scienze o delle arti. Innumerevoli le
leggende che lo riguardano. Nel ’39, fortunosamente ospitato su un
battello che fuggiva per il Mare del Nord, aveva occupato il periodo
del viaggio, angosciato e fortunosissimo, ricostruendo la grammatica
di non so più quale lingua minore. Interrogato perché l’avesse
fatto, rispondeva: «E che altro potevo fare?». Anni fa un
professore ormai celebre, suo antico studente (tra i ragazzini che
hanno studiato con lui ci sono uomini come Chomsky) lo andò a
trovare e in un momento di commozione gli disse: « Maestro, anche
tra duecento anni molte delle vostre scoperte rimarranno
fondamentali!». Jakobson ringraziò con modestia, rimase un momento
sovrapensiero, poi domandò preoccupato: «Molte? Dove ho
sbagliato?». Era l’ultimo dei grandi vecchi.
L’ESPRESSO - 15 AGOSTO
1982
Nessun commento:
Posta un commento