3.8.17

Antonello da Messina. Caduta e ascesa di un grande siciliano (Pasquale Chessa e Vittorio Sgarbi)

Antonello da Messina, L'Annunciata, Museo Nazionale di Palermo
Che Antonello da Messina fosse un pittore veneziano, lo si è creduto a lungo, anche in Sicilia, fino all’Ottocento. Che il suo quadro-simbolo, la luminosissima Annunciata del museo di Palermo, fosse scambiato per un’opera del pittore tedesco Albrecht Durer, o considerato la copia di un’altra Annunciata, conservata a Venezia, è successo fino al 1904. Che ci siano nelle pieghe di chissà quali collezioni quadri di Antonello ancora da scoprire lo rivela la Pietà acquistata dal Prado di Madrid nel 1966: un Cristo morto, ancora palpitante, sorretto da un angelo di fronte a un paesaggio in cui si riconosce la torre campanaria dell’antico duomo di Messina.
Basta perciò contare le opere riscoperte dopo il Novecento, almeno sei, per capire che la grandezza di Antonello («una grandezza che spaura», ha scritto nel 1953 lo storico dell’arte Roberto Longhi) appartiene tutta a questo secolo. Prima, lungo cinque secoli, Antonello era un pittore appena rinomato, famoso come ritrattista e soprattutto abile artigiano: «Fu Antonello che rubò al pittore fiammingo Jan van Eyck il segreto della pittura a olio per rivelarlo agli artisti italiani del Rinascimento», dice, pressappoco, il pittore aretino Giorgio Vasari (l’autore delle Vite, il primo libro di storia dell’arte italiana) a metà del Cinquecento. A partire da questa data l’immagine di Antonello scolora col passare dei secoli: gli elementi sicuri della sua biografia sono scarsi e lacunosi, le opere datate pochissime, quelle perdute sono molte, almeno quaranta. Il caso Antonello perciò si presenta come un intricato dedalo di ipotesi incontrollabili, tra cui affiora all’improvviso un dato certo, una prova, un documento cui appigliarsi. Insomma, un caso da risolvere abbinando agli strumenti della più raffinata critica d’arte le tecniche più corrive dell’indagine poliziesca.
Partiamo dalla data di morte: Antonello spirò, a 49 anni, fra il 14 e il 25 febbraio del 1479. E questo è un dato. L’altro è la mostra che si è appena inaugurata al museo di Messina per commemorare (anche se a distanza di quasi tre anni) il cinquecentenario della morte del pittore. Una mostra semplice, ordinata senza inutile sfarzo da Fiorella Sricchia Santoro e Alessandro Marabottini. A percorrerla tutta d’un fiato si impiegano cinque minuti: le opere di Antonello esposte sono, infatti, appena dieci. Dal Ritratto d’uomo, proprietà del museo Mandralisca di Cefalù, all’Annunciazione di Siracusa, al Polittico di San Gregorio commissionato ad Antonello nel 1473 dalla badessa Fabria Cirino per il monastero di Messina.
Ma bastano dieci quadri per capire la grandezza di Antonello? «Ci sono dovuti bastare», spiega Alessandro Marabottini, «perché il trasporto dei dipinti su tavola è troppo pericoloso. Si danneggiano facilmente e, una volta rovinati, sono persi per sempre». E dieci quadri infatti sono bastati: gli altri capolavori di Antonello sono, però, presenti attraverso delle gigantesche riproduzioni che trasformano la qualità scientifica della mostra in un piacevolissimo percorso didattico, abbondante nelle didascalie da leggersi come un racconto d’avventure.
Antonello da Messina, Annunciazione, Museo di Plazzo Bellomo, Siracusa 
Come si guarda Antonello
Cosa c’è di così speciale nei quadri di Antonello da Messina? Quali sono i «trucchi» per carpirne le qualità? Facciamo un esempio: due quadri che al di là dei dati di cronaca ci raccontano la storia dell’incontro di Antonello con Piero della Francesca, il più scientifico dei pittori italiani del Quattrocento. Cominciamo a guardare l'Annunciazione di Siracusa. Si svolge in una stanza: a sinistra l’angelo, a destra la Madonna inginocchiata su un leggio, al centro una colonna e sullo sfondo due finestre che illuminano la scena. Ma basta avvicinarsi e osservare il dettaglio per scoprire, dietro quelle finestre, un paesaggio disegnato come fosse un piccolo quadro dentro un quadro più grande.
Da dove viene, però, quella luce mattinale che si diffonde per tutta la stanza? Dalla colonna centrale che distribuisce la luce dando un senso alla cubatura prospettica di tutto l’ambiente. Risultato: un capolavoro. Ma non in astratto: guardandolo basta tenere a mente l’Annunciazione di Piero della Francesca ad Arezzo per scoprire quanto Antonello ne fosse influenzato.
San Gerolamo nel suo studio, National Gallery, Londra
Il fiammingo
Dove aveva imparato a dipingere Antonello da Messina? Fino al 1925 non se ne sapeva granché: poi venne fuori un documento e il mistero fu svelato. Antonello, racconta Pietro Summonte in una lettera scritta nel 1524 al patrizio veneto Marco Antonio Micniel, andò a bottega a Napoli dal maestro Colantonio. Napoli che, allora, non era né Bruges né Avignone, dal punto di vista artistico poteva considerarsi una provincia della cultura fiamminga, e la bottega di Colantonio il più fedele avamposto delle Fiandre in Italia. Alfonso d’Aragona, che aveva spostato la capitale del regno a Napoli, possedeva una raccolta di pittura fiamminga. E Antonello rimase colpito da un dipinto del fiammingo Jan van Eyck, venduto da un mercanto toscano proprio a re Alfonso. Vasari, nelle Vite, favoleggia di un incontro fra il fiammingo e il messinese: ma le cose non devono essere andate proprio in quel modo. Così come è impossibile che Antonello potesse rubare i segreti della pittura a olio: tutti i pittori di quel periodo stavano lentamente scoprendo che l'olio era un collante meno vischioso e più duttile dell’uovo usato per le tempere.
Ma fino a che punto Antonello di Messina divenne un «fiammingo» di Napoli? C’è un paragone classico nei manuali di storia dell’arte: il confronto fra il San Gerolamo di Colantonio e il San Gerolamo nello studio di Antonello della National Gallery di Londra. I due quadri non sono esposti a Messina, ma due grandi fotocolor giustapposti servono altrettanto bene allo scopo.
Si osservi: il San Gerolamo di Colantonio è un fratone con tanto di aureola dipinto in primo piano e contornato dai suoi libri, dalle penne, dalle forbici, e il cappello cardinalizio ben in vista, oggetti che descrivono l’ambiente in cui il santo lavora. Si passi ad Antonello con un veloce colpo d’occhio: ci sono gli stessi oggetti, c’è lo stesso santo ma ciò che colpisce è l’architettura in cui la scena si svolge. In Antonello quegli oggetti servono non per descrivere ma per creare lo spazio del quadro. Un quadro attraversato da raggi di luce che percorrono tutte le linee prospettiche del quadro: «Al punto», spiega Giulio Carlo Argan nel suo manuale di storia dell'arte, «che la concentrazione della luce sul volto del santo è ottenuta col riflesso dei piani inclinati delle pagine del libro aperto» che San Gerolamo, rappresentato come uno studioso e non un eremita, sta studiando.
Ritratto d'uomo, Museo Mandralisca, Cefalù
A chi somiglia?
C’è un altro quadro a Messina che vale la pena di leggere con la stessa attenzione: è il Ritratto d’uomo del museo Mandralisca di Cefalù. Leonardo Sciascia, nell’introduzione alla monografia pubblicata da Rizzoli su Antonello, paradossalmente sostiene che si tratti del suo ritratto. Ma potrebbe anche essere quello di un mafioso o dello stesso Antonello.
I ritratti di Antonello, infatti, sono di una natura tutta diversa dal resto della sua pittura. Somigliano a quelli dei maestri fiamminghi come Van der Weyden, Memling o Petrus Christus: ma ciò che in questi artisti quasi trascende dall’umano per forza di virtuosismo, in Antonello, per forza di una limpida intuizione dell’animo umano, ritorna alla natura. Sono dei ritratti particolari e universali, come se il pittore fosse riuscito a definire un’unità fra la natura e l’animo umano attraverso la minuta descrizione dei dettagli: la barba un po’ cresciuta, le sopracciglia disordinate, le cicatrici sulle labbra.

Giochi di mani
Il giorno dell’inaugurazione nelle sale del museo di Messina c’erano duemila persone: nessuna ha rinunciato all’inevitabile sospiro di ammirazione di fronte all'Annunciata, una Madonna mediterranea, quasi pervasa da un continuo palpito di passione insoddisfatta.
Sciascia, ragionando sul manto azzurro dell’Annunciata, ricorda che è uguale al manto delle ragazze siciliane scelte durante le processioni della settimana santa per rappresentare la Madonna. «C’è in proposito», spiega Sciascia, «in ogni paese siciliano, una ricca tradizione: e quasi sempre riferisce del Cristo che, padre della ragazza che fa la Madonna o la Maddalena, vede dall'alto della croce l’apostolo Giovanni stringersi un po’ troppo a confortare la dolente; e dapprima ammonisce, poi si stacca dalla croce e scende bestemmiando alle cosiddette vie di fatto».
Ma la fama dell’Annunciata è soprattutto legata alle sue mani. La mano destra in particolare. Basta osservare con attenzione: la mano, colpita dalla luce che scende dall’alto, la riflette, attenuandola, sul volto messo in ombra dal velo. Molta soddisfazione può anche dare la mano del Salvator Mundi, un altro Antonello della National Gallery di Londra, esposto a Messina solo nella sua riproduzione fotografica. Osservando bene la mano destra si scopre che Antonello prima l’aveva dipinta rivolta verso il petto; poi si è pentito spingendola fuori elei quadro come per impedire che il volto di Cristo sembrasse spiaccicato sulla tavola.
Antonello da Messina, Ritratto d'uomo, Galleria Borghese, Roma

Vivere a Messina
Prima di visitare la mostra può essere utile, per capire meglio i quadri esposti, leggere un libro pubblicato in questi giorni dall’editore Sellerio di Palermo: Antonello e la sua città, di Salvatore Tramontana, un professore di storia medievale.
Tramontana si è preso la briga di raccontarci, attraverso i più disparati documenti, come viveva Antonello a Messina. «Male», dice Tramontana, «in un ambiente culturale che non lo capiva e non lo apprezzava in pieno». Antonello era figlio del «mazonus» Giovanni, maestro della pietra e del marmo, nipote di Michele de Antonio, «patronus» di nave, marito di Giovanna Cuminella e padre di quattro figli. Non che fosse povero: aveva una casa, una schiava negra, viaggiava molto e gestiva una fiorente bottega di artigiano pittore. La verità è che a Messina pochi lo avevano nel giusto conto: forse solo Giuliano Maniuni che per la chiesa di Santa Maria dell’Annunziata di Palazzolo Acreide, il 23 agosto del 1474, ordinò ad Antonello la sua famosa Annunciazione. Compenso: «quindici onze». Il «dominus» Maniuni non solo non pretese il «fondo oro», come la badessa Fabria Cirino, ma volle nel quadro lo sfondo di una architettura secondo le nuove regole della pittura rinascimentale italiana.
Se Antonello ne fosse gratificato non sappiamo: certo è, invece, che col guadagno non aveva molto da scialare: a Messina infatti, allora, un vestito da donna costava quanto una cavalla, più di due onze, e un professore di grammatica prendeva almeno sei onze all'anno. Ma soprattutto meraviglia la disparità di trattamento fra Antonello e due pittori siciliani di cui ricordiamo poco più del nome: Guglielmo Pesaro per pitturare di azzurro ultramarino e oro fino un crocefisso aveva preso 34 onze; ma aveva preso anche la somma favolosa di 110 onze per allestire una icona per la chiesa di San Giacomo della Marina a Palermo. Una cifra comunque inferiore alle 190 onze guadagnate dal pittore Tommaso de Vigilia per un solo quadro. Ironia della storia: per assicurare il trasporto del Ritratto d’uomo da Cefalù a Messina, quasi un’ora di strada, c’è stata una valutazione di cinque miliardi.

A Venezia, a Venezia
Misconosciuto a Messina, Antonello si rifaceva in altre città più generose con lui. Nel 1475 Antonello arriva così a Venezia, determinando una svolta nella pittura veneziana e soprattutto nel suo grande patriarca, il pittore Giovanni Bellini, anch’egli reduce da un incontro con Piero della Francesca. A Venezia Antonello dipinge i suoi quadri più famosi e più belli: la Crocefissione che ora si trova ad Anversa e quella che si trova a Londra, il Condottiero del Louvre, il Ritratto d’uomo della Galleria Borghese di Roma, la Pietà di museo Correr a Venezia e la famosa Pala di San Cassiano. Con questa pala (di cui non rimangono che tre frammenti ricomposti) si inaugura lo schema della Sacra conversazione che Bellini diffonderà poi nella pittura veneta.
Di che cosa si tratta? Abbiamo visto (il Polittico di San Gregorio, per esempio) come santi e Madonne fossero riuniti insieme ma divisi allo stesso tempo dalle cornici dei trittici e dei polittici. Antonello riunisce invece tutti i personaggi in uno spazio unitario: un’aula absidale di chiesa quattrocentesca che accoglie la Madonna col bambino al centro, dominanti sul trono, mentre in basso si raccolgono in meditazione e conversazione alcuni santi simmetricamente disposti.
L’incontro con Bellini a Venezia fu però anche uno scontro fra due diversi modi di concepire la pittura: da una parte Antonello, astratto, razionale e sintetico. Dall’altra Bellini, naturale, umano, analitico. Eppure Antonello riesce a estrarre dai teoremi matematici e dalle forme geometriche della sua pittura il respiro della natura, la malinconia dell’uomo. È questo il contrasto che rende così affascinante l’opera, simbolo e insegna della sua pittura: proprio quell'Annunciata di Palermo, che da sola, nel suo equilibrio di contrasti, spiega la soggezione orgogliosa con cui il figlio di Antonello, il pittore Jacobello, ricordava il padre, dichiarandosi figlio di «non humani pictoris», di un pittore non umano, dunque, ma divino.

L'EUROPEO/16 NOVEMBRE 1981


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