Luis Echeverría |
Il 10 e l’11 aprile scorsi la sezione Internazionale del prestigioso quotidiano spagnolo “El paìs” ha dedicato ben tre articoli a Luis Echeverría Álvarez, presidente del Messico negli anni Settanta. L’articolo retrospettivo, di Verónica Calderón, si intitolava El retorno del eterno protagonista de la política mexicana e ne ricostruiva la controversa carriera. Nato nel 1922, avvocato, entrava nel 1946 nel Partito Rivoluzionario Istituzionale, che pur mantenendo forme democratiche (esisteva una opposizione parlamentare), governava ininterrottamente il Messico dagli anni Trenta e si proclamava erede istituzionale della grande rivoluzione di Villa e Zapata. Ministro degli interni nel 1968 Echeverría era coordinatore del gruppo che organizzò la sanguinosa repressione del movimento studentesco messicano culminata, sulla Piazza delle Tre Culture, nel massacro di almeno cento giovani. Gli assassini degli oppositori di sinistra organizzati e/o tollerati dalle forze dell’ordine (?), peraltro, continuarono almeno fino al 1971, collegati com’erano alla paura messicana e statunitense di un contagio “cubano”, castrista e guevarista. Intanto, grazie ai suoi meriti nella repressione, Echeverría era stato nel 1970 candidato per il PRI alla presidenza del Messico ed aveva stravinto le elezioni (allora non c’era partita), assumendo la carica il 1° dicembre di quell’anno.
Nei primi anni Settanta tentò di rifarsi una verginità a sinistra, assumendo posizioni di dignità nazionale verso gli Usa e di comprensiva amicizia verso Cuba, condannando duramente il colpo di stato in Cile e ospitando in Messico molti esuli cileni tra cui la vedova di Allende. Nel 1974 ottenne dal presidente della Repubblica Italiana Leone una delle più alte onorificenze. Nel 1975 chiese l’espulsione della Spagna dall’ONU per l’esecuzione di 5 antifranchisti. Il suo governo si distinse inoltre per programmi faraonici non realizzati e per un grande aumento della spesa pubblica e dell’inflazione, sullo sfondo di una corruzione diffusa che coinvolgeva i più alti vertici governativi.
Nel 1976 il PRI scelse un altro candidato, ma Echeverría continuò ad avere un ruolo politico, anche perché importante azionista in giornali, radio e Tv: prima fu ambasciatore in diversi paesi e poi all’Unesco.
La sua vicenda politica, con le sue forti contraddizioni, sembra rappresentare efficacemente la parabola del PRI che, nonostante le origini rivoluzionarie e le proclamazioni democratiche, non sembrava nella prassi distante dai regimi autoritari dell’America Latina, populisti come quello di Peron o dichiaratamente di destra. La sconfitta elettorale nel 2000, dopo settant’anni, del PRI, non ha portato peraltro ad una svolta a sinistra o a un’ampia democratizzazione. I nuovi governi, guidati da Fox, sono più liberisti e più filostatunitensi, ma corrotti come quelli del PRI.
La notizia che in aprile ha riportato sulla scena pubblica Echeverría è collegata con la pubblicazione da parte di Wikileaks di alcuni carteggi diplomatici USA. Sull’argomento specifico il “Paìs” si è affidato il 10 e11 aprile a due articoli di Sonia Corona. Da essi emerge un ruolo sostanzialmente subalterno del Messicoverso il grande vicino, documentato dalla relazione diretta tra Kissinger e il ministro degli esteri messicano Rabasa. Echeverría aveva ambizioni di pacificatore: cercava, infatti, di convincere gli americani che era possibile allontanare Cuba dall’orbita sovietica, ponendosi come mediatore per la fine del “blocco” e il ristabilimento di relazioni commerciali tra Usa e Cuba.
Più coerente sembra invece che fosse il sostegno messicano all’esperienza di Allende. Nei dispacci del Dipartimento di Stato Usa, prima del golpe di Pinochet, l’accusa a Echeverría è di doppiogiochismo (“si finge neutrale, ma in realtà sostiene il governo socialista cileno”); il ministro degli Esteri Rabasa avrebbe peraltro confessato l’amicizia personale del suo presidente con Salvador Allende. Dopo il golpe l’accusa è di “cinismo”: Echeverría protesta contro i militari e accoglie i fuggiaschi cileni, ma con le sinistre interne – secondo gli osservatori Usa - s’era comportato come Pinochet.
In verità il livello della violenza criminale pinochettista, con le stragi di massa nello stadio di Santiago, non è paragonabile con le azioni imputate a Echeverría, certamente più circoscritte; ma queste restano gravissime e non riguardano solo la strage del 1968, quando era ministro degli Interni, ma anche altri episodi di uccisione di dirigenti e militanti di sinistra, soprattutto studenti nel primo periodo della sua presidenza.
E’ certo che la caduta del governo PRI ha favorito, a partire dal 2000, tentativi di andare più a fondo sulle sue responsabilità e di ottenere una condanna. Sui fatti del ‘68 Echeverría tentò di far ricadere l’intera responsabilità sul presidente suo predecessore, Díaz Ordaz, suo principale sponsor della ascesa alla presidenza. Lo scrittore messicano José Agustín racconta nella sua Tragicomedia mexicana, una sorta di bilancio retrospettivo di 70 anni di strapotere del PRI, che Díaz Ordaz soleva sputarsi allo specchio per aver permesso e sostenuto l’elezione di Echeverría.
Nel 2001 un “Comitato sui fatti 1968-1972” riuscì a ottenere l’apertura di indagini giudiziarie e nel 2004, la cosiddetta Fiscalía aprì un procedimento d’accusa conto l’ex presidente. Un tribunale nel 2006 ordinò di rimanere ad Echeverría agli arresti domiciliari, ma nel 2009 è arrivata la richiesta di prescrizione.
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