ierSu “il manifesto” del 12 maggio 2006 Franco Voltaggio, raccontando del viaggio di Darwin e del suo Beagle, sulla scorta del libro di un suo discendente, avanza fascinose e convincenti ipotesi sull’origine della teoria dell’evoluzione. Una lettura coinvolgente, almeno per me. (S.L.L.)
I fringuelli di Darwin |
Esiste uno stile di pensiero, tipico degli scienziati inglesi, in cui a un'osservazione dei fenomeni naturali, guidata dal rigore del metodo sperimentale, si associa la capacità di inventare - nell'accezione letterale del verbo - un quadro teorico, in cui risultati della ricerca appaiono sotto una luce nuova, che li rende non meno inediti che, almeno a prima vista, sconcertanti. A guidare questo approccio contribuisce la convinzione profonda che la natura sia, per certi versi, sufficientemente incredibile da autorizzare il ricercatore a cavalcare sul versante dell'incredibilità. Di qui l'indole decisamente rivoluzionaria delle grandi teorie scientifiche prodotte in Inghilterra nell'età moderna. Tra queste va indubbiamente annoverata la teoria classica dell'evoluzione, messa a punto da Charles Darwin con l'Origine delle specie (1859), avversata ai suoi tempi perché in contrasto con il dogma della fissità delle specie, risalente ad Aristotele e fatto proprio dalla tradizione teologica, e più tardi, almeno nei primi vent'anni del '900, seriamente messa in discussione dall'avvento della genetica e dalla considerazione, certo non priva di forza, che il principio della selezione naturale non trovasse un riscontro sperimentale convincente.
Coordinate in mare
Oggi le cose sono cambiate e, sia pure in una cornice concettuale profondamente modificata, paiono essere proprio i meccanismi genetici a dar ragione a Darwin. Come dire che l'autentica invenzione darwiniana non nasceva da una capricciosa e invasiva irruzione di un credo dogmatico corrispondente e opposto a quello aristotelico, ma semmai dal'inclinazione, rientrante nello stile nazionale di pensiero condiviso da Darwin, a rendersi pienamente disponibile alla natura, lasciando che fosse essa stessa a suggerire l'interpretazione dei suoi fenomeni. Ora che tale disposizione nasca dal retaggio francescano del mondo universitario inglese o dall'attitudine dei dotti di Albione a lasciare parlare la fantasia e le emozioni, è cosa controversa. Resta il fatto che curiosità, osservazione spregiudicata e appassionata dei fatti e, insieme, il potere suggestivo dell'immaginazione, costituiscono le coordinate specifiche della personalità di Darwin. A darcene la prova interviene ora il saggio di un suo bisnipote, Richard Keynes, studioso di fisiologia e membro della Royal Society for the Advancement of Sciences, Fossili, fringuelli e fuegini (trad. G. M. Secco Suardo, Bollati Boringhieri, pp. 409, E. 30).
Keynes, in quello che può definirsi una sorta di gradevolissimo romanzo scientifico, narra il leggendario viaggio compiuto dal giovane Darwin sul brigantino Beagle. La nave, comandata dall'altrettanto giovane capitano Robert Fitz Roy, lasciò l'Inghilterra il 10 dicembre 1832, salpando da Plymouth e approdò in patria a Falmouth il 2 ottobre 1836. Il compito assegnato a Fitz Roy dall'ammiragliato prevedeva l'attento monitoraggio climatico delle coste sudamericane dell'Atlantico e del Pacifico, missione che il Beagle assunse brillantemente. Furono toccati gli arcipelaghi dei due oceani e nel percorso di ritorno la Nuova Zelanda e l'Australia, diverse isole dell'Oceano Indiano e poi, facendo vela a partire dal capo africano di Buona Speranza, altri gruppi di isole dell'Atlantico Meridionale (tra queste Sant'Elena dove Napoleone era morto il 5 maggio 1821). Non fu tuttavia un semplice viaggio limitato alle rilevazioni barometriche. La nave, facendo frequentemente scalo, permise all'equipaggio e alle persone imbarcate, tra le quali spiccava, oltre Darwin, il pittore Conrad Martens, di addentrarsi nel territorio dei tre continenti, di osservare gli usi e i costumi delle popolazioni, comprendenti, oltre agli Ispanici, i popoli senza scrittura (così si direbbe oggi di quelli allora definitivi primitivi), come i Fuegini, abitanti della Terra del Fuoco, all'estremità meridionale dell'Argentina, i Maori dell'Australia, nonché le città sudamericane, australiane e neozelandesi fondate dai coloni bianchi. La missione del Beagle finì perciò con il coincidere con un'esplorazione geografica e culturale a tutto campo e con l'assumere spesso, come fu con l'Argentina, il carattere di una presa di contatto economico e politico con i paesi del Nuovo Mondo.
Esploratori per caso
Lo spirito che animò i suoi protagonisti può essere assimilato a quello degli astronauti allunati nel 1969. Nonostante gli Inglesi conoscessero quei territori soprattutto a partire dal XVII secolo, la stessa America meridionale restava, sotto il profilo della geografia, della fauna, della flora e dei suoi aborigeni una terra incognita, quasi una Luna a ovest del Vecchio Continente. La durezza del viaggio, gli stress climatici, le difficoltà di rapportarsi con i locali, anzi che generare angoscia, sconcerto, stanchezza, finirono col trasformare gli uomini della Beagle, da Darwin a Martens a Fitz Roy, all'ultimo dei marinai, in esploratori alle prese con una situazione paradossalmente su misura per un inglese, tutto sommato a proprio agio con il cosmo dell'incredibile. Darwin accentuò, col suo comportamento, l'atteggiamento generale sino a esserne in qualche modo il principale responsabile.
Quale era la veste ufficiale che, vinte le resistenze del padre, nella quale Darwin prese parte alla missione del Beagle? Il giovane Charles era il naturalista di bordo, un aggettivo che lo qualificava come esperto deputato allo studio non solo della fauna e della flora, ma anche della configurazione geologica delle regioni visitate. In realtà, per la cultura inglese dell'epoca, la storia naturale contemplava, come all'epoca di Plinio, la ricerca sulla natura inanimata non meno che su quella vivente. In Inghilterra, sotto l'influenza di Charles Lyell, di cui aveva con sé il primo libro dei Principles of Geology, Darwin aveva già condotto osservazioni geologiche. E quando la nave lo sbarcava, cominciava immediatamente a studiare la natura dei suoli, a esplorare montagne e vulcani, a fare ipotesi sui fenomeni che in un remotissimo passato avevano portato agli specifici caratteri delle terre emerse dei siti osservati. Se, per certi versi, nell'indagine sulla fauna e la flora, limitava la sua attività soprattutto alla classificazione degli animali e delle piante seguendo la metodica di Linneo, incentrata sul dogma della fissità delle specie, in geologia era interessato soprattutto ai processi di trasformazione del geoide. Sotto un certo aspetto, non condividendo più gran parte della teoria geologica allora in vigore, principiò, in misura sempre più netta, a pensare alla Terra come a una realtà in evoluzione. Quasi inavvertitamente, ma per altro inevitabilmente, trascinato dalle suggestioni geologiche, soprattutto nella scoperta e classificazione dei fossili vegetali e animali, finì con l'allontanarsi sempre di più dalla rigida tassonomia di Linneo. Agli occhi dei suoi compagni di avventura appariva come uno speculativo che non si limitava a classificare, ma si poneva domande che, sfidando la sua capacità di risposta, cercava almeno di formulare in modo adeguato. Fitz Roy lo chiamava, con ammirazione e ironia, "il filosofo". Senza volerlo, il brillante capitano, come si direbbe a Roma, "ci aveva preso". Il giovane Charles era davvero un filosofo, se per filosofo intendiamo non chi avanza idee sul reale senza provarle con i fatti, ma chi, indagandoli, li trasforma in interrogativi suscettibili di una risposta se non attendibile, almeno ragionevole. La sua esposizione finì con l'essere contrassegnata, nella scrittura del Journal of Researchs - in cui raccoglieva le osservazioni - da quella che Quintiliano chiamava curiosa felicitas, ossia una singolare fecondità di argomentazioni suggestive. Vediamo come.
Al pari dei suoi contemporanei, il giovane Darwin non metteva in dubbio che il regno animale e vegetale fossero l'esito di un progetto intelligente voluto da un creatore che create le specie, le aveva distribuite geograficamente in luoghi in cui potessero sopravvivere. Il problema non stava tanto nel chiedersi se i due regni fossero stati creati con caratteristiche non mutevoli da Dio, ma come avesse proceduto Dio nel volere la creazione. La straordinaria ricchezza del mondo vivente, la sua diversità riscontrabile nella diversità degli habitat, inclinava implicitamente Darwin a studiare le modalità della creazione e, perciò stesso, a condividere il vecchio mito del Timeo di Platone (persistente elemento del platonismo di Cambridge): la creazione quale espressione di due distinti protagonisti, un Deus otiosus, perfetto, immutabile (e immobile) e un demiurgo che si era ispirato a questo per creare il mondo e la vita. Ma già lo sdoppiamento dell'attività creatrice metteva in forse il racconto biblico della genesi. In concreto, solo un geniale artigiano - tale è il significato originario del greco demiourgós - aveva potuto occuparsi di tanti e diversi particolari.
Dal mito al sospetto
Dalla ricchissima messe di osservazioni del giovane Darwin, emergono taluni luoghi che lasciano pensare al suo incipiente sospetto che la causa primaria della diversità andasse ricercata in un fattore diverso dalla creazione, il cui principio è la comparsa contemporanea di specie fisse. Il primo elemento di perplessità è per l'appunto legato al fattore temporale. Descrivendo il paesaggio della regione di Valparaiso, constatando la modesta presenza di fauna, Darwin afferma: non è improbabile che la scarsezza di animali derivi dal fatto che nessuno di essi è stato creato all'epoca in cui il paese è emerso dal mare. L'altro elemento è la diversità constatabile in un medesimo gruppo filetico, come nel caso delle Geospizinae, note come "Fringuelli di Darwin", studiate da Charles nelle Galapagos, a riguardo delle quali lo scienziato, nell'edizione del 1845 del Journal of researches, fa affermazioni che mettono in iscacco l'idea della creazione, introducendo l'idea della scelta (nucleo euristico della selezione). Prendendo le distanze dalle considerazioni ortodosse di Fitz Roy - "Gli uccelli che vivono in queste isole coperte di lava hanno becchi corti e robusti alla base come quelli di un ciuffolotto. Ciò sembra essere uno dei tanti ammirevoli provvedimenti della Saggezza Infinita grazie alla quale ogni creatura è adattata al luogo in cui è destinata" -, Darwin asserisce: "nell'osservare tale gradazione e diversità di struttura in un gruppo piccolo e assai omogeneo di uccelli, si potrebbe immaginare che da un originario ed esiguo numero di uccelli di questo arcipelago una specie sia stata scelta e modificata per finalità differenti (corsivo nostro)".
E' possibile considerare che, se Fitz Roy quantto Darwin continuano ad ancorarsi allo stesso referente, il creatore, il secondo tuttavia introduce l'idea della scelta. La scelta non è ancora la selezione e la natura non ha ancora, nel giovane Darwin, sostituito Dio, ma la diversità all'interno della stessa specie lascia trasparire l'idea che la variazione del becco dei fringuelli sia stata operata dopo che gli animali si trasferirono alle Galapagos non prima della loro migrazione, il che implicitamente denuncia l'impossibilità che i tratti diversi della stessa specie siano oggetto di una creazione contemporanea. Ma la contemporaneità non è forse il tratto peculiare della creazione secondo cui, stando alla Genesi, la sola temporalità ammessa è quella dei giorni della creazione sul filo di una narrazione che ci dice come Dio nel quinto giorno prescrivesse: "volino degli uccelli sopra l'ampia distesa del cielo"?
Se è possibile trarre una conclusione dal suggestivo libro di Keynes, il viaggio sul Beagle disegna quella che potrebbe chiamarsi "l'infanzia di un capo", intendendo per "capo" uno dei capofila della scienza moderna. Darwin era partito pieno di certezze, ritornò colmo di perplessità e finì con il maturare come filosofo della natura. Non sono, d'altronde, la perplessità e il dubbio segni di riconoscimento della scienza?
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