14.5.11

Milano, 15 maggio 1796. Arriva la rivoluzione e la città rinasce (Stendhal).

Quello che segue è l’incipit di un libro grande, anzi grandissimo, La Certosa di Parma di Stendhal, nella ottocentesca traduzione di Ferdinando Martini. E’ la prima parte del primo capitolo (Milano nel 1796), caratterizzato da uno slancio musicale, da un “allegro con brio” che già cattura il lettore, come lo catturerà, un po’ più avanti, il fatto che “la storia con i suoi rombi di cannone e il ritmo del vissuto individuale marciano allo stesso passo”.
Sono parole di Italo Calvino che le scrisse su “La Repubblica” dell’8 settembre 1982, quando l’imminente trasmissione sulla Rete Uno della Rai della sua trasposizione televisiva, per la regia di Mauro Bolognini, riportava all’attualità il grande romanzo stendhaliano. Il suo articolo sulla Certosa  ne sottolineava il carattere di romanzo a più livelli, ma soprattutto lo straordinario potere di seduzione.
Un mese dopo circa Jacqueline Risset, francesista e italianista insigne oltre che eccellente traduttrice (di Dante, per esempio), su “L’Europeo” del 4 ottobre, dopo il successo delle prime puntate dello sceneggiato tv, ne spiegava in modo analogo il successo: né Bolognini né altri sceneggiatori e registi avrebbero potuto trasferire senza danno sullo schermo “un testo così perfetto nella sua rapidità, nella sua intensità e nella sua levità”, e per di più già molto cinematografico; ma il cineasta italiano era riuscito a comunicare la magia del romanzo con un uso sapiente della musica, specie di quella di Rossini, allegra e ed energica. Una questione di ritmo anche per lei, insomma.
Un ritmo che tuttavia in Stendhal non nasce a caso, ma deriva in qualche modo dalla Storia. Per la Risset il punto che cattura il lettore è proprio l’inizio del romanzo: “Non ci sono incipit altrettanto trionfali. Stendhal racconta l’ingresso delle truppe napoleoniche a Milano… Ecco, non si tratta solo dell’arrivo di un esercito… Quelle truppe rappresentano la forza della rivoluzione, della ribellione, della libertà, della gioia di vivere, della felicità, e dell’amore. Tutto il contrario della dominazione austriaca a Milano che fa pesare su tutta l’Italia una cappa di lugubre tristezza”. C’è poco da aggiungere, se non che questa esplosione di vitalità è anche un prorompere della giovinezza. Alla testa dell’esercito di valorosi che libera Milano c’è (“più vecchio di tutti” – precisa Stendhal) un generale di 27 anni e per un nuovo inizio, per una autentica rivoluzione non c’è nulla di meglio che un esercito di valorosi capaci non solo di sbaragliare l’esercito imperial-regio, ma di cullare i piccoli delle contadine lombarde nelle campagne e delle massaie nella città e di divertire i più grandicelli con un improvvisato e scatenato “saltarello” all’italiana.
Alla vigilia di un altro 15 maggio, che potrebbe propiziare un nuovo risveglio di Milano (così è nei miei voti e auspici), propongo qui alla rilettura (o alla lettura) la stupenda pagina di apertura sinfonica del romanzo, che non vede ancora sulla scena i personaggi protagonisti. La Risset è convinta che “fin dalle prime righe, attraverso lo stile di Stendhal, questo stile straordinariamente veloce e musicale, il lettore sente trasferirsi in lui quella gioia di scrivere che si tramuta in gioia di leggere”. Credo anch’io che sia così. (S.L.L.)

Milano, 15 maggio 1796. L'esercito repubblicano francese fa il suo ingresso 
dal Ponte di Lodi. Stampa d'epoca. Museo civico Carlo Verri, Biassono
MILANO NEL 1796
Il 15 maggio 1796 il general Bonaparte entrò a Milano alla testa del giovine esercito che aveva varcato il ponte di Lodi e mostrato al mondo come dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avessero un successore.
I miracoli d'ardimento e d'ingegno che l'Italia vide compiersi in pochi mesi risvegliarono un popolo addormentato: otto giorni avanti che i Francesi giungessero, i Milanesi li credevano un'accozzaglia di briganti usi a scappar di fronte alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale, che questo diceva e ripeteva tre volte la settimana un giornalucolo grande come il palmo della mano e stampato su una sudicia carta.
Nel Medioevo i Milanesi furon prodi quanto i Francesi della rivoluzione e meritarono di veder la loro città rasa al suolo dagli imperatori tedeschi. Da quando divennero «sudditi fedeli», loro cura suprema era lo stampar sonetti su pezzoline di taffetas rosa per celebrar le nozze di qualche fanciulla nobile o ricca. La quale fanciulla, due o tre anni dopo quel gran giorno della sua vita, si prendeva un cavalier servente: qualche volta il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, era perfino onorevolmente registrato nel contratto di matrimonio. Che differenza tra questi costumi effeminati e le commozioni profonde suscitate dal giungere impreveduto dell'esercito francese! Costumi nuovi non tardarono a sorgere, passioni nuove a manifestarsi; e tutto un popolo, il 15 maggio 1796, si accorse che quanto aveva fino allora circondato del suo rispetto era sovranamente ridicolo, odioso talora. La partenza dell'ultimo reggimento austriaco segnò la rovina delle vecchie idee: l'esporre la vita venne di moda. E si fu persuasi che per esser felici, dopo secoli d'ipocrisia e di scipitaggini, era necessario amar qualche cosa con passione vera, e sapere al caso sfidare la morte. La continuazione del geloso dispotismo di Carlo quinto e di Filippo secondo aveva come sommersi i Lombardi in tenebre profonde; rovesciate le loro statue, si sentirono a un tratto inondati di luce. Da una cinquantina d'anni, e via via che il Voltaire e l'Enciclopedia sfolgoravano in Francia, al buon popolo di Milano i frati andavano strillando che imparare a leggere o imparare una cosa qualsiasi era fatica inutile; che, a pagar regolarmente le decime al curato, e a raccontargli coscienziosamente tutti i propri peccatucci, s'era press'a poco sicuri d'avere un buon posto in Paradiso. A finir poi di prostrare questo popolo, già cosí animoso, l'Austria gli aveva venduto a buon mercato il privilegio di non fornir reclute al suo esercito.
Nel 1796, ventiquattro cialtroni vestiti di rosso costituivan la forza armata della città di Milano, e con quattro magnifici reggimenti ungheresi presidiavano la città. La licenza era estrema; le passioni assai rare; oltre al liberarsi dall'obbligo fastidioso di raccontare i fatti propri ai curati, desiderii assillanti i Milanesi del 1796 non ne avevano. Rimanevano ancora certi impacci monarchici un tantino vessatorii: per esempio, l'arciduca residente in Milano, che governava in nome dell'imperatore suo cugino, aveva avuto la proficua idea di far commercio di granaglie: quindi, divieto ai contadini di vender le loro finché fossero pieni i magazzini di Sua Altezza Imperiale.
Nel maggio 1796, tre giorni dopo l'ingresso dei francesi, un giovine pittore di miniature, un po' matto, e il cui nome, Gros, fu celebre piú tardi, udita raccontare al Gran Caffè dei Servi — allora di moda — la gloriosa impresa dell’arciduca, che era un colosso, disegnò sul rovescio del listino dei gelati, stampato in brutta carta gialla, questo schizzo: un soldato francese con una baionetta forava la pancia del grosso principe: dalla quale invece di sangue usciva una enorme quantità di grano. Quel che noi diciamo schizzo o caricatura era ignoto in quel paese di dispotismo vigile e astuto. Il disegno lasciato dal Gros sur un tavolino del Caffè dei Servi parve un miracolo piovuto dal cielo: la stessa notte fu inciso e il giorno dopo se ne venderono ventimila esemplari. Il giorno stesso, con editto affisso ne' luoghi pubblici, si imponeva una contribuzione di guerra di sei milioni, da sopperire ai bisogni dell'esercito francese il quale, dopo aver vinto sei battaglie e conquistato venti province, non difettava piú che di calzoni, di scarpe, di abiti e di cappelli. Tale contentezza irruppe nella Lombardia, tale letizia vi diffusero quegli spiantati Francesi che soli i preti e alcuni nobili s'accorsero della gravezza della contribuzione di sei milioni, presto seguita da parecchie altre. Quei soldati ridevano e cantavano tutto il giorno: avevano meno di venticinque anni, e il generale in capo, che ne aveva ventisette, passava per il piú vecchio dell'esercito. E tanta gaiezza tanta giovinezza tanta spensieratezza parevan rispondere sollazzevolmente alle furibonde predicazioni dei frati che durante sei mesi avevano dai pulpiti dipinto i Francesi quali mostri, obbligati sotto pena di morte a incendiar tutto che si parasse loro dinanzi e a tagliar teste quante piú potessero: per il quale esercizio ogni reggimento marciava con, in avanguardia, una ghigliottina. Per le campagne si vedevan sulle porte delle stamberghe soldati francesi occupati a cullare i bimbi delle contadine, e quasi ogni sera qualche tamburino, strimpellando un violino, improvvisava un balletto. E poiché le contraddanze parevan troppo complicate, affinché i soldati, che del resto non le sapevano, potessero insegnarle alle campagnole, provvedevano queste a insegnare ai Francesi la monferrina, il salterello e altri balli italiani.

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